Jean-Loup
Verdier
premette
il
pulsante
del
telecomando
e
solo
quando
la
saracinesca
fu
aperta
a
metà
accese
il
motore,
per
non
respirare
i gas
di
scarico
nello
spazio
ristretto
del
box.
La
luce
dei
fari
lasciò
lentamente
la
parete
di
metallo
che
si
sollevava
per
an¬dare
a
bucare
lo
schermo
nero
dell’oscurità
davanti
a
lui.
Mise
su
drive
la
leva
del
cambio
automatico
e,
quando
l’apertura
fu
com¬pleta,
premette
l’acceleratore
e
guidò
lentamente
l’SLK
all’ester¬no.
Pigiò
il
tasto
di
chiusura
puntando
il
telecomando
con
il
brac¬cio
alzato
sulla
testa,
e
mentre
aspettava
il
clang
della
porta
che
si
richiudeva
rimase
a
guardare
il
panorama
che
si
apriva
davanti
al
cortile
di
casa
sua.
Montecarlo
era
un
letto
di
cemento
sul
mare.
Sotto
i
suoi
occhi
la
città
quasi
non
aveva
forma,
avvolta
nella
leggera
fo¬schia
di
vapore
che
rifletteva
le
luci
accese
nella
sera.
Poco
sot-to
di
lui,
i
campi
illuminati
del
Country
Club,
già
su
territorio
francese,
dove
probabilmente
si
stava
allenando
qualche
star
del
tennis
internazionale,
di
fianco
al
dito
alzato
di
Parc
Saint-Roman,
uno
dei
grattacieli
più
alti
della
città.
Più
giù,
verso
Cap
d’Ail,
sotto
la
rocca
della
città
vecchia,
si
indovinava
il
quartie¬re
di
Fontvieille,
strappato
all’acqua
metro
per
metro,
pezzo
per
pezzo.
Accese
contemporaneamente
una
sigaretta
e la
radio
sintoniz¬zata
su
Radio
Monte
Carlo.
Mentre
avviava
la
macchina
su
per
la
rampa
che
portava
alla
strada,
con
il
telecomando
azionò
l’aper¬tura
del
cancello.
Svoltò
a
sinistra
e
scese
lentamente
verso
la
città
godendo
l’aria
già
calda
di
fine
maggio.
Kit REED
-
INVERNO
Arrivò
da
noi
alla
fine
dell’autunno.
C’era
un
velo
di
ghiaccio
sulle
pozzanghere,
e io
sentivo
nelle
ossa
l’inverno,
freddo
e
terribile;
la
fame
si
stava
già
svegliando
dentro
di
me,
si
sarebbe
aggirata
tranquilla
fino
all’inizio
dell’anno,
prima
che
arrivasse
la
primavera
avrebbe
cominciato
a
ruggire
come
una
tigre,
consumandomi
fino
al
disgelo,
quando
Maude
avrebbe
potuto
ricominciare
ad
andare
a
caccia,
e
avremmo
potuto
andare
di
nuovo
in
città
con
il
furgone.
Non
ne
potevo
più
di
mettere
roba
sotto
vetro,
ma
andai
a
prendere
un
po’
dei
pomodori
che
avevamo
appeso
in
cantina,
e li
misi
156 in
vaso;
Maude
usciva
e
riportava
ogni
pezzo
di
carne
a cui
poteva
sparare
e
tutto
il
grano,
la
farina,
il
latte
in
polvere
che
poteva
caricare
sul
furgone;
dovevamo
immagazzinare
tutto
prima
che
arrivasse
la
neve
e ci
isolasse.
La
settimana
che
lui
arrivò
Maude
aveva
trovato
una
lepre
stecchita
sulla
strada,
congelata,
con
le
zampe
rigide
rivolte
verso
l’alto,
e
tutta
la
carne
che
avevamo
appeso
nella
dispensa
si
era
congelata.
Venerdì
trovammo
la
brina
sull’erba,
e
quando
guardai
fuori
dalla
finestra
e
vidi
delle
impronte
sulla
brina
dissi,
Maude,
c’è
qualcuno
nella
casetta
dei
giochi
e
allora
uscimmo,
e lo
trovammo
lì.
Era
addormentato
in
mezzo
ai
mucchi
di
vestiti
con
cui
ci
mascheravamo
sempre,
con
la
testa
appoggiata
all’abito
di
velluto
che
mia
madre
aveva
indossato
all’Esposizione,
e i
piedi
sull’abito
di
raso
con
cui
si
era
sposata;
si
era
messo
il
boa
di
piume
attorno
al
collo,
e la
pelliccia
di
volpe
attorno
ai
fianchi.
Prima
che
arrivasse
lui,
Maude
e io
passavamo
l’inverno
parlando
dei
tempi
andati,
evocando
il
passato
fra
di
noi e
lo
guardavamo
e
Maude
finiva
sempre
per
dare
la
colpa
a me.
Avrei
potuto
sposare
Lister
Hoffman
o
Harry
Miad
e
andarmene
per
sempre
da
qui,
se
non
fosse
stato
per
te,
Lizzie.
Io le
dicevo,
Accidenti,
non
ho
mai
avuto
bisogno
di
te.
Non
li
hai
sposati
perché
non
li
hai
sposati,
avevi
paura
e mi
hai
usato
come
scusa.
Lei
allora
si
arrabbiava.
È una
bugia.
Va
bene,
come
ti
pare,
le
dicevo,
per
non
litigare. |
Sapevamo
tutt’e
due
che
io
avrei
sposato
il
primo
uomo
che
me
l’avesse
chiesto,
ma
nessuno
l’aveva
mai
fatto,
neppure
per
tutti
i
miei
soldi,
a
causa
della
malattia.
Se
nessuno
l’avesse
saputo,
magari
qualcuno
mi
avrebbe
anche
sposato,
ma
una
volta
andai
nei
campi
con
Miles
Harrison,
quando
mio
padre
era
ancora
vivo,
e
Miles
ed io
quasi
lo
facemmo,
solo
che
mi
prese
un
attacco
proprio
lì di
fronte
a
lui,
e
così
non
lo
feci
mai.
Forse
nessuno
l’avrebbe
mai
saputo,
ma
Miles
mi
vide
cadere
a
terra.
Immagino
che
sia
stato
lui a
mettermi
qualcosa
fra i
denti,
ma
quando
tornai
in me
se
n’era
andato.
La
prima
volta
che
andai
in
città,
tutti
mi
guardavano
in
maniera
strana,
qualcuno
faceva
anche
uno
sforzo
per
essere
gentile,
ma
erano
tutti
nervosi,
pensando
se
l’avrei
fatto
proprio
lì di
fronte
a
loro,
se
avrei
sbavato
molto,
se
gli
avrei
fatto
male,
e non
appena
potevano
dicevano,
Scusa
ho da
fare,
o
qualunque
cosa
per
andarsene
in
fretta
e
furia.
Quando
incontrai
Miles
quel
giorno
non
volle
guardarmi,
e da
allora
nessun
uomo
si è
più
avvicinato
a me,
in
più
di
cinquant’anni,
ma io
e
Miles
quasi
lo
facemmo,
e non
ho
mai
smesso
di
pensarci.
Adesso
mio
padre
se
n’è
andato
e mia
madre
se
n’è
andata
e
anche
Lister
Hoffman
e
Miles
Harrison
e
metà
dei
ragazzi
che
mi
ridevano
dietro
se ne
sono
tutti
andati,
ma
Maude
continua
a
darmi
la
colpa,
ci
sediamo
dopo
cena
e mi
dice,
Se
non
fosse
stato
per
te
adesso
avrei
dei
nipotini
e io
le
dico
che
ne
avrei
avuto
ancora
prima
di
lei,
perché
a lei
gli
uomini
non
le
sono
mai
piaciuti,
li
sopportava
solo
per
avere
i
bambini
e
anche
questo
era
troppo
complicato
e le
avrebbe
fatto
male.
È una
bugia,
Lizzie,
diceva
lei.
Harry
e io
tante
volte…
e io
le
dicevo,
Non
l’hai
mai
fatto
ma
Miles
e io…
Allora
tutt’e
due
cominciavamo
a
pensare
a
esser
giovani
e ad
avere
i
ragazzi
che
ti
toccano
ma i
ricordi
fanno
diventare
acida
Maude
e
vuole
sempre
avere
l’ultima
parola.
È
colpa
tua
dice,
ma
dentro
di me
io so
che
la
gente
si fa
la
propria
vita
con
le
sue
mani,
e lei
ha
sempre
voluto
più
di
ogni
altra
cosa
restare
chiusa
qui
dentro
senza
nessuno
che
le
chiedesse
di
fare
qualcosa,
voleva
stare
in
questa
casa
con
me,
la
sua
rinsecchita
sorella,
fredda
e
sicura,
e se
le è
venuta
fame,
le è
venuta
tardi. |
Dopo
un
po’
cominciavamo
ad
inventarci
delle
storie:
Una
volta
sono
andata
con
un
ragazzo
fino
a
Portland…
Una
volta
ho
ballato
per
tutta
la
notte
e per
mezza
mattina,
e lui
voleva
baciarmi
nella
piega
del
braccio…
Cercavamo
di
far
passare
l’inverno,
ma
anche
così
non
era
sufficiente
e
restavamo
sempre
con
la
fame,
per
quante
scorte
facessimo,
la
carne
finiva
sempre
prima
del
disgelo
e
immagino
che
in
realtà
erano
le
nostre
vite
che
giudicavamo,
ma
decidevamo
che
non
c’era
niente
che
ci
piacesse
nei
barattoli,
così
restavamo
sedute
e
sognavamo
e
avevamo
fame
e ci
chiedevamo
se
saremmo
morte
per
la
fame,
ma
finalmente
arrivava
il
disgelo
e
Maude
mi
guardava
con
un
sorriso:
Se
solo
avessimo
un’altra
occasione…
Ora
forse
ce
l’avremo.
Lo
trovammo
nella
casetta
dei
giochi,
forse
era
il
fatto
di
vederlo
addormentato
in
mezzo
ai
vestiti
di
mia
madre,
o
forse
il
fatto
che
fosse
nella
casa
dei
giochi,
dove
tante
volte
ci
vestivamo,
ma
ecco
che
c’era
questo
ragazzo,
o
uomo,
e
qualcosa
di
lui
che
ci
richiamò
alla
mente
i
ricordi
migliori,
c’era
una
promessa
scritta
su di
lui.
Sono
troppo
vecchia,
sono
tutta
inaridita,
ma
non
ho
mai
smesso
di
pensare
a
quella
volta
e
vedendo
lì
quel
ragazzo,
potevo
far
finta
che
era
Miles
e che
io
ero
ancora
giovane.
Dovette
accorgersi
di
noi,
perché
si
svegliò
e si
rannicchiò,
forse
aveva
un
coltello,
poi
si
accorse
che
eravamo
solo
due
grosse
vecchie
con
stivali
militari,
disse,
Scappo
dai
Marines,
avevo
bisogno
di un
posto
per
dormire.
Maude
disse,
Non
mi
importa
di
cosa
hai
bisogno,
devi
andartene
da
qui,
ma
quando
lui
si
alzò
barcollava.
I
capelli
gli
cadevano
dalla
testa
come
quelli
di un
ragazzo
che
conoscevo
una
volta
e
dissi,
Maude,
perché
non
dici
di
sì,
una
volta
tanto.
Aveva
addosso
una
camicia
di
cotone
e
pantaloni
che
non
assomigliavano
a
nessuna
uniforme
che
avessi
mai
visto
e
stava
dicendo,
Sono
successe
due
cose,
mi
sono
reso
conto
che
avrei
dovuto
uccidere
qualcuno
in
guerra
e poi
ho
fatto
un
errore
e mi
hanno
picchiato,
così
ho
tagliato
la
corda.
Sorrise
e
sembrava
sincero.
Io
guardai
dura
Maude
e
finalmente
Maude
mi
guardò
e
disse,
Va
bene,
vieni
in
casa
a
mangiare
qualcosa.
Dopo
un
po’
cominciavamo
ad
inventarci
delle
storie:
Una
volta
sono
andata
con
un
ragazzo
fino
a
Portland…
Una
volta
ho
ballato
per
tutta
la
notte
e per
mezza
mattina,
e lui
voleva
baciarmi
nella
piega
del
braccio…
Cercavamo
di
far
passare
l’inverno,
ma
anche
così
non
era
sufficiente
e
restavamo
sempre
con
la
fame,
per
quante
scorte
facessimo,
la
carne
finiva
sempre
prima
del
disgelo
e
immagino
che
in
realtà
erano
le
nostre
vite
che
giudicavamo,
ma
decidevamo
che
non
c’era
niente
che
ci
piacesse
nei
barattoli,
così
restavamo
sedute
e
sognavamo
e
avevamo
fame
e ci
chiedevamo
se
saremmo
morte
per
la
fame,
ma
finalmente
arrivava
il
disgelo
e
Maude
mi
guardava
con
un
sorriso:
Se
solo
avessimo
un’altra
occasione…
Ora
forse
ce
l’avremo.
Lo
trovammo
nella
casetta
dei
giochi,
forse
era
il
fatto
di
vederlo
addormentato
in
mezzo
ai
vestiti
di
mia
madre,
o
forse
il
fatto
che
fosse
nella
casa
dei
giochi,
dove
tante
volte
ci
vestivamo,
ma
ecco
che
c’era
questo
ragazzo,
o
uomo,
e
qualcosa
di
lui
che
ci
richiamò
alla
mente
i
ricordi
migliori,
c’era
una
promessa
scritta
su di
lui.
Sono
troppo
vecchia,
sono
tutta
inaridita,
ma
non
ho
mai
smesso
di
pensare
a
quella
volta
e
vedendo
lì
quel
ragazzo,
potevo
far
finta
che
era
Miles
e che
io
ero
ancora
giovane.
Dovette
accorgersi
di
noi,
perché
si
svegliò
e si
rannicchiò,
forse
aveva
un
coltello,
poi
si
accorse
che
eravamo
solo
due
grosse
vecchie
con
stivali
militari,
disse,
Scappo
dai
Marines,
avevo
bisogno
di un
posto
per
dormire.
Maude
disse,
Non
mi
importa
di
cosa
hai
bisogno,
devi
andartene
da
qui,
ma
quando
lui
si
alzò
barcollava.
I
capelli
gli
cadevano
dalla
testa
come
quelli
di un
ragazzo
che
conoscevo
una
volta
e
dissi,
Maude,
perché
non
dici
di
sì,
una
volta
tanto.
Aveva
addosso
una
camicia
di
cotone
e
pantaloni
che
non
assomigliavano
a
nessuna
uniforme
che
avessi
mai
visto
e
stava
dicendo,
Sono
successe
due
cose,
mi
sono
reso
conto
che
avrei
dovuto
uccidere
qualcuno
in
guerra
e poi
ho
fatto
un
errore
e mi
hanno
picchiato,
così
ho
tagliato
la
corda.
Sorrise
e
sembrava
sincero.
Io
guardai
dura
Maude
e
finalmente
Maude
mi
guardò
e
disse,
Va
bene,
vieni
in
casa
a
mangiare
qualcosa.
Caro
Trap,
quando
siete
partiti
per
il
Giappone,
con
la
garbata
ironia
che
mi
contraddistingue,
vi ho
detto
che
se
non
vincevate
vi
avrei
sbattuto
in
galera.
Be’,
non
scherzavo.
Ma
ciò
non
accadrà
perché
vinceremo,
e
vinceremo
perché
da
oggi
sono
io il
commissario
a
interim
della
nazionale,
tu
non
osi,
esiti
e hai
le
idee
confuse.
Se
segui
queste
istruzioni
e
mandi
in
campo
la
mia
formazione,
il
trionfo
è
assicurato.
Procediamo
per
esclusione.
Sbatti
fuori
Tommasi
che è
comunista,
che
vada
a
giocare
nella
Dinamo
Mosca,
anzi
adesso
che
siamo
amici
di
Putin,
che
vada
a
giocare
nella
Dinamo
Cuba.
Via
Coco
che
gioca
in
Spagna
ed è
in
buoni
rapporti
coi
giornalisti
del
Pais.
Via
Panucci,
Totti,
Del
Vecchio
e
Montella
che
sono
troppo
amici
di
Veltroni.
Via
Juliano
e
Cannavaro
che
sono
meridionali
e
Bossi
non
gradisce.
Via
Di
Biagio,
Di
Livio
e Del
Piero,
non
mi
piace
il Di
e Del
davanti
ai
nomi,
tutto
quello
che
c’è
in
Italia
deve
chiamarsi
Di
Silvio
e Del
Silvio.
Via
Nesta
e
Materazzi,
sono
troppo
alti
e mi
stanno
sui
coglioni.
Via
Buffon
e
Toldo,
tre
portieri
sono
troppi.
Via
Vieri
e
Zanetti
che
sono
interisti
e mi
distraggono
le
veline.
La
squadra
comprenderà
solo
giocatori
del
Milan
o in
procinto
di
essere
acquistati
dal
Milan,
oppure
a me
graditi.
Ecco
la
formazione,
imparala
a
memoria
e
scrivitela.
In
porta
Abbiati.
In
difesa
Maldini,
e al
suo
fianco
voglio
rivedere
Billy
Costacurta.
Sulla
fascia
destra
convoca
La
Russa
(ci
tiene
tanto)
e
sulla
sinistra
Pappalepore,
è
l’autista
di
D’Amato,
non
so
come
gioca,
ma
non
possiamo
dire
no
alla
Confindustria.
A
centrocampo:
Ambrosini,
Doni
e
Donadoni
(è un
po’
ingrassato,
ma se
la
cava).
Le
punte:
Inzaghino
bello
e
Lunardi.
Tu mi
dirai:
ma
non
sa
giocare.
Se è
per
quello,
non
sa
neanche
fare
il
ministro.
E
lass
ma
non
liss
come
dice
Bush,
chi
sarà
il
centravanti?
Un
furetto
brevilineo
dai
piedi
buoni,
un
estroso
furfantello
delle
aree,
un
presidente
finanziere,
operaio
e
anche
goleador.
Ebbene
sì:
avevo
appeso
le
scarpette
al
chiodo,
ma
tornerò
a
difendere
i
colori
del
mio
paese:
giocherò
con
lo
pseudonimo
di
Pataquinho.
Non
vedo
l’ora!
A
proposito,
quando
inizierà
la
partita,
entreremo
democraticamente
in
campo
tutti
insieme,
anche
se io
sarò
su
una
portantina.
Poi
canteremo
insieme
l’inno
di
Mameli
e Oh
Susanna,
a
Bush
fa
piacere.
Quindi
inizierà
la
tenzone
e
caro
Trap,
non
dubitare,
spezzeremo
le
reni
agli
avversari.
L’Equator
è
debole
e poi
ho
visto
sull’atlante
che
non è
un
paese,è
una
riga
che
gira
tutto
in
tondo,
che
cazzo
di
giocatori
può
avere?
Il
Messico
è
povero
e
debole,
sarà
un
piacere
pestare
quei
figli
di
Chiapas.
In
quanto
alla
Croazia
ho
chiesto
lumi
su
come
attaccare
a
D’Alema.
Caro
Trap,
prepara
la
squadra
e
aspettami.
Forse
il
calcio
mi
ridarà
l’onorabilità
che
altri
settori
si
ostinano
a non
negarmi.
Sarò
leale
e
onesto.
A
proposito,
arriverò
con
sedici
chili
di
nandrolone,
epo,
turbocaina,
gonfiomix
e
nitrato
di
amile
nascosti
nella
valigia
diplomatica.
Di’
ai
ragazzi
che
ogni
mattina
ne
dovranno
prendere
una
bella
cucchiaiata
nella
colazione.
E
niente
scrupoli
da
anime
belle,
il
calcio
è
come
la
finanza,
se
sei
onesto
ti
fan
fuori.
In
quanto
alle
critiche
di
ingerenza
e
protagonismo,
be’,
sono
pronto
a
rintuzzarle.
Non
metto
mai
bocca
nei
settori
che
non
sono
di
mia
competenza.
Ad
esempio,
quando
c’è
stata
l’elezione
del
nuovo
presidente
Rai,
io ho
proposto
una
rosa
di
nomi:
Baldassarre,
Emanuela,
Susy
e
Maria
Selvaggia.
Che
colpa
ne ho
se
hanno
scelto
un
maschietto?
Ciao
e a
presto,
Silvio
Berlusconi
Fine
|
Dopo
l’eliminazione
della
virginale
Italia
da
parte
dei
corrotti
coreani,
il
premier
Silvio
Berlusconi,
garante
dell’indignazione
patria
finalmente
unita,
coesa
e
bipolare,
ha
inviato
le
seguenti
lettere
che
partecipi
e
furenti
pubblichiamo.
Lettera
uno.
“Caro
Trap,
mi
consenta
di
dirti
che
ci
son
rimasto
proprio
di
merda.
Il
mio
regimuccio
aveva
un
forsennato
bisogno
di
trionfi
sportivi,
e tu
ti
fai
sbattere
fuori
come
un
extracomunitario
qualsiasi.
Beffa
e
disdoro!
Io,
il re
dei
pataccari,
eliminato
da un
guappo
di
mezza
tacca
come
Blatter,
uno
che
contrabbanda
qualche
soldo
in
Svizzera,
con
un
conflittino
d’interesse
ridicolo,
da
amministratore
condominiale.
E io,
che
do
dell’you
a
Bush
e
faccio
tremare
le
magistrature
europee,
dopo
aver
superato
avvisi
di
garanzia,
cassazioni,
rogatorie
e
toghe
rosse,
mi
trovo
fregato
da
tale
Ciccio
Biròn
Moreno,
un
arbitro
ecuadoriano
che
sembra
Mastella
alle
elementari,
e da
una
banda
di
segnalinee
che
tutti
insieme
non
prendono
il
rimborso
spese
di un
inviato
Rai.
Sì,
lo
so,
ho
anch’io
le
mie
responsabilità.
Quando
mi
hai
avvertito
che
bisognava
comperare
l’arbitro
e che
il
segreto
della
Corea
era
il
Ginseng,
mi
son
dato
da
fare.
Ho
mandato
subito
Previti,
il
mio
specialista
in
shopping
di
arbitrati.
Ma
avevamo
sottovalutato
la
situazione.
Previti
aveva
nella
valigia
un
prosciutto
e una
decina
di
Rolex,
quelli
che
distribuisco
ai
leader
congobelgi
e
sudamerichi
tutte
le
volte
che
facciamo
quegli
inutili
incontri
sulla
fame
del
mondo
dove
mi
annoio,
non
capisco
niente
e poi
per
reazione
mangio
come
un
micciché
e
ingrasso.
Quando
Previti
è
arrivato,
gli
hanno
sequestrato
il
prosciutto
e poi
lo
hanno
portato
da
Ciccio
Biròn.
Be’,
il
maledetto
ecuadoriano
aveva
il
braccio
su
una
carriola,
per
sostenere
il
gigantesco
Rolex
che
portava
al
polso.
Aveva
anche
le
bretelle
di
Rolex
annodati
e un
Rolex
attorno
al
sigaro.
Blatter
aveva
colpito
prima
di
noi!
Allora
ho
cercato
di
comperare
questo
Ginseng,
ma
nessuno
dei
miei
collaboratori
è
riuscito
a
trovare
un
giocatore
che
si
chiamasse
così,
si
può
sapere
che
cazzo
di
nomi
hanno
questi
coreani?
È
stato
allora
che
ti ho
suggerito
l’operazione
Dio è
con
noi.
Col
Messico
è
andata
bene,
ma
hai
commesso
un
errore.
Non
dovevi
consumare
subito
tutta
la
damigiana
di
acqua
benedetta,
dovevi
centellinarla,
non
annaffiare
il
campo
e
farci
il
caffè
per
la
squadra.
Purtroppo
non
siamo
riusciti
a
procurarci
una
seconda
damigiana.
Era
acqua
benedetta
di
Santa
Maria
Novella
e
abbiamo
già
venduto
la
chiesa
agli
americani,
che
han
riempito
l’acquasantiera
di
sangrilla.
E
anche
dopo
hai
continuato
a non
darmi
retta.
Ti
avevo
detto
che i
giocatori,
oltre
all’inno
di
Mameli,
avrebbero
dovuto
cantare
T’adoriam
Ostia
divina,
ma
milanisti
e
juventini
si
sono
rifiutati
dicendo
che
era
una
canzone
filolaziale.
Nesta,
Maldini
e
Zambrotta
avrebbero
dovuto
portare
il
cilicio
e
frustarsi
vicendevolmente,
la
puntina
da
disegno
dentro
la
scarpa
non
era
sufficiente.
Mi
avevi
anche
promesso
che
tutti
avrebbero
portato
al
collo
pesanti
crocefissi
dorati,
medaglioni
di
Padre
Pio e
miei
busti
in
marmo.
Chi
li ha
visti?
Quel
posapiano
di
Cannavaro
doveva
portare
sulle
spalle
l’icona
di
Santa
Lucia,
che i
tiri
devìa,
e
Gattuso
la
statua
di
San
Callisto,
che
agli
avversari
incrina
il
menisco.
Non
ho
visto
niente
di
tutto
questo.
E
dov’era
il
cero
di
otto
metri
che
Buffon
avrebbe
dovuto
tenere
acceso
dietro
la
porta?
E le
majorettes
carmelitane
sugli
spalti?
Insomma,
sapevi
che
la
nostra
squadra
era
stanca
e
logora,
e che
ci
sarebbe
voluto
un
miracolo,
ma
non
hai
avuto
fede,
tradendo
i
valori
più
alti
della
cultura
italica
e
occidentale.
Io
non
sono
vendicativo,
ma
non
allenerai
più
la
nazionale.
Ho
tre
nomi
in
ballottaggio:
Tardelli,
il
cardinale
Milingo
e il
presidente
del
grande
Milan
di
Sacchi.
Ma
non
resterai
senza
lavoro.
La
Libertas
Maracalagonis
è una
delle
realtà
più
interessanti
del
calcio
sardo,
e non
appena
avrai
messo
a
letto
le
pecore,
avrai
tutto
il
tempo
per
allenarla
a
dovere.
Congratulazioni,
il
mister
dei
mister,
Silvio” |
L’antico
rito
del
Natale
nell’era
del
buonismo:
e
arriva
il
Bambino
con
il
casco
tratto
da
di
mercoledì
23
dicembre
1998
SCENA:
un
negozio
di
una
grande
città
italiana.
Personaggi,
il
cliente
e il
venditore.
Cliente
-
Buongiorno.
Quest’
anno
vorrei
reintrodurre
nella
mia
casa
l’antica
tradizione
del
presepe.
Venditore
-
Modestamente
siamo
i più
forniti
della
città.
Da
dove
cominciamo?
Dalla
capanna?
- Sì,
ecco,
sono
indeciso
tra
la
stalla
e la
grotta.
-
Escluderei
la
grotta,
signore.
La
grotta
richiama
il
dissesto
del
territorio,
i
container
del
terremoto,
i
palazzi
che
crollano.
Lei
non
vuole
fare
un
presepe
ideologico,
suppongo
turberebbe
la
sensibilità
dei
cittadini
e i
lavori
per
il
Giubileo.
-
Allora
meglio
la
stalla?
-
Assolutamente
no.
Un
minimo
di
verismo
ci
vuole.
Le
stalle
della
nostra
zona
sono
state
tutte
trasformate
in
ristoranti
tipici.
E poi
cosa
vorrebbe
insinuare,
che
la
nostra
amministrazione
ospita
gli
immigrati
in
stalle?
Oppure
che
qualsiasi
famiglia
palestinese
o
magrebina
può
occupare
un
edificio
in
barba
alle
regole
civili
e
immobiliari
della
nostra
città?.
- MA
NO,
non
volevo
essere
frainteso,
è che
ho
visto
quei
modellini
di
stalla
lì
sul
bancone...
- Non
sono
in
vendita.
La
prima
stalla
sarà
ristrutturata
e
ceduta
all’Università
che
ci
farà
una
facoltà
di
Massoneria
comparata.
La
seconda
diventerà
una
banca,
la
terza
è
della
Curia
che
affitterà
solo
a
studenti
benestanti
e a
charter
di
suore,
l’ultima,
poiché
il
pavimento
sta
cedendo,
diventerà
un
garage
per
fuoristrada.
- E
allora?
- E
allora,
ecco
la
nuova
sede
della
Sacra
Famiglia.
Un
elegante
villino
unifamiliare,
vista
sulla
pianura
di
Betlemme,
due
bagni,
box
auto.
-
Ma...
mi
sembra
troppo
per
un
semplice
falegname.
- Un
falegname?
No,
guardi,
facciamola
finita
con
l’immagine
del
vecchio
San
Giuseppe
con
barba
e
bastone.
Il
suo
presepe
non
deve
far
pensare
a una
città
di
barboni.
Ecco
la
statuina
del
nuovo
San
Giuseppe.
Ha un
bel
loden,
il
look
alla
Raz
Degan,
e fa
il
mobiliere.
E
vicino,
ecco
Maria.
- Ma
com’è
vestita?
- Ha
un
completo
Armani
in
miniatura.
La
preferiva
col
solito
scialle
e la
testa
coperta?
-
Vuole
forse
speculare
ponendo
la
Madonna
al
centro
di
una
scena
di
povertà?
- No,
guardi,
non
guastiamo
il
Natale
con
questo
buonismo
di
facciata.
Eccola
qui,
e non
inginocchiata,
ma
seduta
su
una
comoda
poltrona.
-
Sarà,
ma mi
sembra
un
presepe
molto
strano.
Almeno
il
bue e
l’asinello,
me li
dà?
- Il
bue?
Ma
vuole
scherzare,
con i
rischi
della
mucca
pazza
e le
nuove
leggi
europee
e le
quote
latte?
E in
quanto
all’
asino,
il
riscaldamento
a
alito
animale
è
proibito
in
quanto
igienicamente
insicuro
e non
rilevabile
al
contatore.
Questa
casetta
ha il
riscaldamento
autonomo
a
pila.
Invece
del
bue e
dell’asino,
ecco
le
statuine
di
due
bei
cani
da
guardia,
perché
bisogna
difendere
la
pace
domestica
dalla
marmaglia
microcriminale.
Preferisce
una
coppia
di
dobermann
o due
rottweiler?
- I
dobermann
vanno
bene.
Ma
almeno
l’angelo
e la
cometa
me li
lascia
comprare?
- La
cometa
no,
c’è
una
legge
che
regola
l’illuminazione
pubblica,
però
le
posso
montare
sul
tetto
un’insegna
pubblicitaria,
ad
esempio
quella
del
nostro
negozio,
Presepi
Jubileus,
in
neon
azzurro
pulsante. |
Basta
uno
squillo
a
svegliarmi,
e ho
già
la
mano
sul
ricevitore.
Con
un
filo
di
corda
vocale
dico
Pronto
e
guardo
con
orrore
le
lancette
rosse
della
sveglia
che
segnano
le
dieci.
Chi
mi
conosce
un
minimo,
penso,
non
si
sognerebbe
mai
di
chiamarmi
a
quest’ora
che
per
me è
ancora
l’alba.
Dev’essere
successo
qualcosa
di
grave,
penso
anche,
anzi
di
gravissimo,
se no
non
si
spiega.
Poi,
piano
piano,
la
voce
mesta
di
Nadia
comincia
a
sciorinare
l’ultima
malefatta
di
Mario,
suo
fidanzato
immaginario
e mio
migliore
amico.
Mi
intrometto
a
fatica
nel
delirio
chiamandola
due o
tre
volte
per
nome.
Un
Nadia
detto
più
forte
finalmente
le
impone
di
tacere.
«Nadia»
dico.
«Sono
solo
le
dieci
del
mattino!»
E
lei,
piagnucolando:
«Ma
io
(pausa)
sto
male!»
«Perché»,
faccio
io
«tra
due
ore
starai
meglio?
Richiamami
più
tardi».
Metto
giù,
anche
se so
che
non
riprenderò
sonno;
spazzo
via
un
lieve
senso
di
colpa
grattandomi
il
naso
e
rifletto.
Non
le
sopporto
più
le
pene
d’amore,
né le
mie
né
quelle
degli
altri.
Non
ho
più
niente
da
dire
inproposito,
nessun
consiglio,
nessun
parere.
Le
mie
orecchie
sono
diventate
selettive.
Forse
hanno
fatto
dei
test
e
hanno
imparato
a
dare
ascolto
solo
alle
cose
che
sono
in
grado
di
tollerare.
Chissà,
magari
è una
conquista,
un
traguardo.
O è
che
sto
diventando
sempre
più
egoista?
Sono
sveglia.
Sbarro
gli
occhi
nel
semibuio
e
Ofilonoff
salta
sul
letto
strusciandosi
contro
la
mia
faccia
e
miagolando;
uno
che
se
non
altro
ha un
problema
concreto:
ha
fame.
Ecco,
un
altro
giorno
in
mano
e non
so
cosa
farne.
Avessi
almeno
potuto
continuare
a
dormire…
Mi
alzo,
incespico
a
piedi
nudi
nel
corridoio
– con
Ofilonoff
dietro
–, e
mi
fermo
per
la
consueta
sosta
davanti
alla
porta
di
casa.
Di
una
porta
normale
ormai
conserva
solo
la
maniglia,
per
il
resto
è
tutta
tappezzata
di
foglietti
adesivi
con
su
scritti
orari
di
piscina
(mai
che
ci
sia
andata
una
volta),
frasi
tratte
da
film
o
canzoni,
campagna
abbonamenti
Il
Bologna
è una
fede,
numeri
di
cellulari
e,
infine,
il
mio
o.d.g.,
cioè
il
piccolo
elenco
delle
cose
inutili
che
devo
fare
oggi.
Senza
questo
foglietto
sarei
persa.
Lontani
i
tempi
in
cui a
scuola
meravigliavo
studenti
e
professori
con
la
mia
memoria
da
elefante!
Ora
ho
bisogno
di
appuntarmi
tutto:
telefonate,
incontri,
scadenze,
cose
da
comprare.
Non
c’è
giorno
che
non
vada
a
leggere
quel
foglietto.
E non
c’è
giorno
che
non
rimandi
tutto
al
giorno
dopo. |
La
storia
che
vi
racconterò
è una
storia
del
mio
paese
che
si
chiama
Sompazzo
ed è
famoso
per
due
specialità:
le
barbabietole
e i
bugiardi.
Il
vecchio
del
paese,
Nonno
Celso,
profetizzò
che
quell’anno
il
tempo
sarebbe
stato
balordo.
Disse
che
lo si
poteva
capire
da
tre
segni:
le
folaghe
che
ogni
anno
passavano
sopra
il
paese,
erano
passate
ma in
treno.
Il
capostazione
ne
aveva
visti
due
vagoni
pieni;
le
ciliegie
erano
in
ritardo:
quelle
che
c’erano
sugli
alberi
erano
dell’anno
prima;
le
ossa
dei
vecchi
non
facevano
male.
In
compenso
tutti
i
bambini
avevano
la
gotta
e le
bambine
i
reumatismi.
Nonno
Celso
disse
che
ne
avremmo
viste
di
belle.
Bene,
a
febbraio
era
già
primavera.
Tutte
le
margherite
spuntarono
in
una
sola
mattina.
Si
sentì
un
rumore
come
se si
aprisse
un
gigantesco
ombrello,
ed
eccole
tutte
al
loro
posto.
Dagli
alberi
cominciò
a
cadere
il
polline
a
mucchi.
Tutto
il
paese
starnutiva,
e
arrivò
un’epidemia
di
allergie
stranissime:
ad
alcuni
si
gonfiava
il
naso,
ad
altri
spuntava
una
maniglia.
La
frutta
maturava
di
colpo:
ti
addormentavi
sotto
un
albero
di
mele
acerbe
e ti
svegliavi
coperto
di
marmellata.
Poi
toccò
alla
pioggia
dare
i
numeri.
Pioveva
solo
un’ora
al
giorno,
ma
sempre
nello
stesso
punto:
sulla
casa
del
sindaco.
Poi
la
nuvolona
si
metteva
a
passeggiare
avanti
e
indietro
sul
paese
e
appena
vedeva
qualcuno
col
cappello,
zac,
glielo
incendiava
con
un
fulminino.
Poi
venne
un
vento
profumato
e
afrodisiaco.
Quando
soffiava,
la
gente
si
imbirriva
e
correva
nelle
fratte
a
due,
a
tre,
a
gruppi.
Il
prete
era
disperato.
Un
giorno,
mentre
inseguiva
una
coppia
sorpresa
a
porcellare
in
sagrestia,
prese
una
folata
in
faccia
e lo
trovarono
in un
pagliaio
con
una
fedele
ma
non
troppo.
Ad
aprile
ecco
di
colpo
l’estate.
Quarantasette
gradi.
Il
grano
maturò
e in
due
giorni
era
cotto.
Raccogliemmo
duecento
quintali
di
sfilatini
di
pane.
Faceva
così
caldo
che
le
uova
bollivano
non
solo
sul
tetto
delle
macchine,
ma
anche
nel
culo
delle
galline,
le
poverette
starnazzavano
e la
mattina
trovavamo
le
omelettes
nella
paglia
del
pollaio.
Il
laghetto
si
prosciugò
in un
soffio.
I
pesci
trovarono
rifugio
nelle
vasche
da
bagno
e non
c’era
verso
di
mandarli
via,
ci
toccava
far
la
doccia
insieme
alla
trota.
I
pesci
gatto
davan
la
caccia
ai
topi.
Tutti
portavamo
dei
cappelli
di
paglia,
ma il
sole
incendiava
anche
quelli,
e
allora
ci
mettemmo
dei
cappelli
di
zinco
e
lamierino,
e
venne
l’esercito
a
controllare
perché
un
ricognitore
aereo
aveva
detto
che a
Sompazzo
c’era
stata
una
invasione
di
marziani.
Subito
dopo
cominciò
a
grandinare.
Ogni
volta
iniziava
con
tre
tuoni,
poi
in
cielo
si
sentiva
un
vocione
che
diceva
“alè”
e
venivano
giù
dei
panettoni
di
grandine.
A
Biolo
ne
cadde
uno
grande
come
una
forma
di
parmigiano,
con
dentro
un
corvo
ben
conservato.
Tornò
un
caldo
da
Africa.
La
gente
dormiva
per
strada,
dentro
ai
frigoriferi
con
la
prolunga.
Il
gelataio
lavorava
ventiquattro
ore
su
ventiquattro
e
dopo
quell’estate
si
comprò
un
grattacielo
a
Montecarlo. |
Beati
coloro
che
hanno
fame
e
sete
di
giustizia
perché
saranno
giustiziati.
(Piergiorgio
Bellocchio)
C’era
un
dittatore
che
aveva
incarcerato,
torturato
e
ammazzato
uomini
e
donne
del
suo
Paese.
Un
giorno
gli
venne
annunciata
la
visita
del
Capo
degli
Uomini
Buoni.
Poiché
questo
Capo
era
molto
potente,
viaggiava
per
il
mondo
e
ovunque
andasse
la
gente
accorreva
a
vederlo,
il
dittatore
dovette
prepararsi
a
riceverlo
nel
modo
migliore.
Ammazzò
tutti
i
torturati
perché
non
si
dicesse
che
c’era
la
tortura,
tutte
le
mamme
dei
desaparecidos
perché
non
dicessero
che i
figli
erano
desaparecidos,
tutti
i
prigionieri
perché
non
si
dicesse
che
le
prigioni
erano
piene,
e
riempì
la
città
di
striscioni
di
benvenuto.
Ma la
notte
prima
della
visita
non
dormì:
sapeva
che
il
Capo
degli
Uomini
Buoni
conosceva
il
bene
e il
male
ed
era
venuto
per
rimproverarlo:
gli
avrebbe
detto
delle
cose
terribili
davanti
a
tutti
smascherando
i
suoi
delitti.
Così
la
mattina
all’aeroporto
era
molto
nervoso.
Invece
della
solita
divisa
con
draghi
e
pugnali,
si
era
messo
un
completo
grigio
con
la
cravatta,
e al
posto
dei
gorilla
generali
aveva
una
scorta
di
suorine.
Ogni
suorina
teneva
in
braccio
un
bambino,
di
cui
il
Capo
degli
Uomini
Buoni
era
ghiotto.
Il
Visitatore
scese
tutto
vestito
di
bianco
da un
aereo
bianco,
baciò
la
terra
e i
bambini,
salutò
il
dittatore
e
insieme
percorsero
i
viali
della
città
tra
gli
applausi
della
gente,
anche
perché
chi
non
applaudiva
veniva
bastonato.
Quando
furono
nell’appartamento
del
dittatore
il
Capo
degli
Uomini
Buoni
chiuse
a
chiave
la
porta
e
disse:
-
Adesso
io e
lei
facciamo
due
chiacchiere. |
Una
notte:la
moglie
chiede
al
marito
spegni
le
luci
seno
entrano
le
zanzare;
il
marito
le
spegne:
10
minuti
dopo
entra
una
lucciola
e la
moglie
dice:
ora
le
zanzare
ci
vengono
a
cercare
pure
con
la
torcia.
Due
carabinieri
vanno
in
banca
con
una
macchina
di
servizio
entrano
in
banca
e nel
frattempo
gli
rubano
la
macchina.
quando
se ne
accorgono
uno
di
loro
chiama
il
maresciallo
e
dice:”maresca’
hanno
rubato
la
macchina”
“avete
visto
chi è
stato”
“noo
ma
abbiamo
preso
il
numero
della
targa.
Ci
sono
due
carabinieri
allo
specchio,
uno
dice
all’altro:
guarda
due
colleghi,andiamo
a
salutarli.E
l’altro:
fermo!
Stanno
venendo
loro.
Al
bar:
“Perché
bevi
con
gli
occhi
chiusi?”.
“Perché
il
dottore
ha
detto
che
l’alcool
non
lo
devo
neppure
vedere!”
“Dottore,
dottore!
Che
cosa
mi ha
diagnosticato
ieri?
Leone,
pesci...”
”CANCRO,
signora!
CANCRO!”
Un
pittore
entra
nel
suo
studio
ove
trova
la
sua
segretaria
allarmata:
“Pina
che
ti è
successo?”
“Devo
darle
due
notizie,
una
buona
ed
una
cattiva”
“Qual
è
quella
buona?”
“E’
venuto
un
signore,
mi ha
chiesto
se i
suoi
quadri
sarebbero
aumentati
di
valore
dopo
la
sua
morte,
gli
ho
risposto
affermativamente
e lui
li ha
comprati
tutti.”
“Benone!
E la
cattiva?”
“L’acquirente
era
il
suo
medico.” |
2000,
Novembre
La
lama
gli
aprì
la
pancia
da
sotto
lo
sterno
fino
al
pube.
Siero
e
sangue
erano
colati
dentro
l’addome.
Le
budella,
trattenute
nel
loro
sacco,
furono
offese
dall’emorragia.
Il
coltello
tagliò
di
nuovo.
Due
mani
entrarono
nel
varco,
come
per
strappargli
le
viscere,
e
scollarono
l’intestino
dalla
parete
muscolare.
Sotto,
affiorò
la
carne
scura,
chiazzata
di
nero.
Per
un
caso
misterioso,
lui
era
ancora
vivo.
Nella
cavità
ristagnava
il
sangue,
che
affluiva
da
ferite
profonde.
Le
mani
impietose
continuarono
a
rovistare.
Il
filo
del
rasoio
colpì
ancora,
creò
dolore
e
nuovi
crateri,
rimestò
la
carne.
Le
dita
frugarono,
trovarono
il
rene
sinistro
e lo
tirarono
con
forza
verso
il
basso,
spezzandolo
in
monconi.
Intensi
fiotti
di
liquido
rosso
pulsarono,
solo
per
un
attimo,
e si
riversarono
sul
fondo
dell’oscena
cavità.
A
sacrificio
quasi
compiuto,
il
pezzo
superiore
del
rene
era
rimasto
attaccato
al
peduncolo
formato
dai
principali
vasi
sanguigni.
Il
coltello
lo
tagliò
di
netto.
Dai
cavi
interrotti
la
vita
fuggiva
in
fretta.
Nel
buco
spalancato
sotto
lo
stomaco,
polpa,
muscoli
e
organi
imploravano
cecità.
Allora
la
cavità
addominale
fu
colpita
con
scariche
elettriche.
«Va
bene»,
disse
il
chirurgo.
«L’emorragia
si è
fermata.
Completiamo
l’emostasi,
mettiamo
il
drenaggio
e
chiudiamo.»
Marco
chiuse
il
portone
e
mentre
si
girava
in
direzione
della
sua
auto
urtò
unragazzo
che
stazionava
lì
davanti
ogni
mattina,
da
più
di
una
settimana.
Lo
vedeva
sul
marciapiede
fissare
il
portone
di
legno
e
vetro
con
lo
sguardo
di un
predatore
davanti
a uno
gnu
zoppicante.
Lo
oltrepassò
senza
scusarsi.
Aspirò
con
la
bocca
aperta
un
sorso
di
nebbia
mista
all’aroma
di
pollo
alla
cantonese,
cuscus
e
anidride
solforosa,
e si
avviò
verso
l’auto.
Non
riusciva
a
distinguere
il
marciapiede
dalla
parte
opposta
della
strada.
Si
mosse
quasi
a
tentoni
verso
la
zona
dove
aveva
parcheggiato
la
Volvo.
Alle
sue
spalle,
continuò
a
percepire
la
presenza
del
ragazzo.
Quella
faccia
dai
tratti
africani,
fissa
davanti
al
portone
di
casa,
lo
metteva
a
disagio |
Una
notte
del
gennaio
del
1309,
mentre
giaceva
su un
pagliericcio
del
lazzaretto
di
Siena,
avvolto
in
bende
nauseabonde,
Cecco
Angiolieri,
poeta
e
bestemmiatore,
fece
un
sogno.
Sognò
che
era
una
torrida
giornata
estiva
e che
stava
passando
davanti
al
duomo.
Sapendo
che
quel
luogo
era
fresco
pensò
di
entrarvi
per
sfuggire
alla
canicola,
ma
invece
di
genuflettersi
e di
bagnarsi
le
dita
nell’acqua
benedetta,
incrociò
le
dita
in
gesto
di
scongiuro,
perché
temeva
che
quel
luogo
gli
portasse
sfortuna.
Nella
prima
cappella
a
destra
c’era
un
pit
tore
che
stava
dipingendo
una
Madonna.
Il
pittore
era
un
giovane
biondo
e
sedeva
su
uno
scranno,
con
la
tavolozza
fra
le
braccia,
in
atteggiamento
di
riposo.
La
tavola
sacra
era
quasi
finita:
era
una
Vergine
dagli
occhi
obliqui
e dal
sorriso
impercettibile
che
reggeva
sulle
ginocchia,
adagiato
nelle
pieghe
delle
vesti,
il
bambino
Gesù.
Il
pittore
lo
salutò
con
garbo
e
Cecco
Angiolieri
rispose
con
una
risata.
Poi
si
mise
a
osservare
il
quadro
e
provò
un
grande
malessere.
Lo
infastidiva
l’espressione
di
quella
signora
altera
che
guardava
superbamente
il
mondo
come
se
avesse
in
gran
dispetto
le
cose
terrene.
Fu
più
forte
di
lui:
si
avvicinò
al
quadro
e
tendendo
il
braccio
destro
gli
fece
un
gesto
osceno.
Il
giovane
pittore
balzò
dal
suo
scranno
e
cercò
di
fermarlo,
ma
Cecco
Angiolieri,
come
invasato,
si
divincolò
e
fece
un
gesto
osceno
anche
col
braccio
sinistro.
Allora
la
Vergine
mosse
gli
occhi
come
se
fossero
occhi
umani
e lo
fulminò
con
lo
sguardo.
Cecco
Angiolieri
sentì
uno
strano
brivido
in
tutto
il
corpo,
cominciò
a
rattrappirsi
e a
rimpicciolirsi,
vide
che
le
membra
gli
si
stavano
ricoprendo
di
pelo
nero,
si
accorse
che
una
lunga
coda
gli
spuntava
fra
le
gambe
e
cercò
di
urlare,
ma
invece
di un
urlo
dalla
bocca
gli
uscì
un
miagolio
spaventoso
e
lui,
piccolo
e
furibondo
ai
piedi
del
pittore,
si
accorse
di
essere
diventato
un
gatto.
Fece
un
balzo
in
avanti
e uno
indietro,
come
impazzito
nella
mostruosa
prigione
di
quel
nuovo
corpo,
digrignò
i
denti
furibondo
e
uscì
dalla
chiesa
miagolando
selvaggiamente.
Intanto
sulla
piazza
era
calata
la
sera.
Cecco
Angiolieri
dapprima
strisciò
lungo
le
pareti,
poi
si
guardò
intorno
per
vedere
se
qualcuno
faceva
caso
a
lui.
Ma la
piazza
era
quasi
deserta.
Sull’angolo,
vicino
a una
taverna,
c’era
un
gruppo
di
giovani
dall’aria
furfantesca
che
avevano
portato
fuori
i
boccali
e
bevevano.
Cecco
Angiolieri
pensò
di
passare
davanti
alla
taverna,
perché
aveva
fame,
e
forse
avrebbe
potuto
trovare
qualche
crosta
di
formaggio.
Strisciò
lungo
il
muro
della
taverna
e
passò
davanti
alla
porta,
che
era
illuminata
con
due
torce
sugli
stipiti.
A
quel
punto
uno
dei
giovinastri
lo
chiamò,
facendo
il
tipico
rumore
delle
lab
bra
che
si fa
ai
gatti,
e gli
fece
vedere
una
cotica
di
prosciutto.
Cecco
Angiolieri
si
precipitò
ai
suoi
piedi
e
prese
in
bocca
la
cotica,
ma in
quel
mentre
i
giovani
lo
afferrarono
e
stringendolo
forte
lo
portarono
dentro
la
taverna.
Cecco
Angiolieri
tentò
di
mordere
e di
graffiare,
ma i
giovinastri
lo
tenevano
ben
saldo:
chi
gli
stringeva
la
bocca
e chi
gli
immobilizzava
le
zampe,
cosicché
nulla
potè
fare.
Quando
furono
dentro
i
giovinastri
presero
il
barattolo
di
pece
che
serviva
alle
torce
e gli
cosparsero
ben
bene
il
pelo
con
l’unguento.
Poi,
con
una
torcia,
gli
appiccarono
fuoco
e lo
lasciarono
libero.
Cecco
Angiolieri,
trasformato
in
una
palla
di
fuoco,
schizzò
fuori
miagolando
terribilmente,
si
lanciò
contro
le
pareti
delle
case,
si
rotolò
per
terra,
ma il
fuoco
non
si
spengeva.
Comin
ciò a
percorrere
come
una
saetta
le
buie
viuzze
di
Siena,
illuminandole
al
suo
passaggio.
Non
sapeva
dove
andare,
si
lasciava
trasportare
dall’istinto.
Svoltò
due
angoli,
percorse
tre
vie,
attraversò
una
piazzuola,
salì
una
scalinata,
arrivò
davanti
a un
palazzo.
Lì
viveva
suo
padre.
Cecco
Angiolieri
salì
lo
scalone,
passò
accanto
ai
servi
spaventati,
entrò
nella
sala
da
pranzo
dove
suo
padre
stava
cenando
e
urlò:
padre
mio,
sono
diventato
un
fuoco,
vi
prego,
salvatemi!
E in
quel
momento
Cecco
Angiolieri
si
svegliò.
I
fisici
gli
stavano
togliendo
le
bende
e il
suo
corpo,
ricoperto
dalle
terribili
piaghe
del
fuoco
di
Sant’Antonio,
gli
bruciava
come
una
fiamma. |
Antonio
Tabucchi
-
Sogno
di
Michelangelo
Merisi
La
notte
del
primo
gennaio
del
1599,
mentre
si
trovava
nel
letto
di
una
prostituta,
Michelangelo
Merisi,
detto
il
Caravaggio,
pittore
e
uomo
iracondo,
sognò
che
Dio
lo
visitava.
Dio
lo
visitava
attraverso
il
Cristo,
e
puntava
il
dito
su di
lui.
Michelangelo
era
in
una
taverna,
e
stava
giocando
di
denaro.
I
suoi
compagni
erano
dei
furfanti,
e
qualcuno
era
ubriaco.
E
lui,
lui
non
era
Michelangelo
Merisi,
il
pittore
celebre,
ma un
avventore
qualsiasi,
un
malandrino.
Quando
Dio
lo
visitò
stava
bestemmiando
il
nome
di
Cristo,
e
rideva.
Tu,
disse
senza
dire
il
dito
del
Cristo.
Io?,
chiese
con
stupore
Michelangelo
Merisi,
io
non
sono
un
santo
per
vocazione,
sono
solo
un
peccatore,
non
posso
essere
scelto.
Ma il
volto
del
Cristo
era
inflessibile,
senza
scampo.
E la
sua
mano
tesa
non
lasciava
spazio
a
nessun
dubbio.
Michelangelo
Merisi
abbassò
la
testa
e
guardò
il
denaro
sul
tavolo.
Ho
stuprato,
disse,
ho
ucciso,
sono
un
uomo
con
le
mani
lorde
di
sangue.
Il
garzone
dell’osteria
arrivò
portando
fagioli
e
vino.
Michelangelo
Merisi
si
mise
a
mangiare
e a
bere.
Tutti
erano
immobili,
vicino
a
lui,
solo
lui
muoveva
le
mani
e la
bocca
come
un
fantasma.
Anche
il
Cristo
era
immobile
e
tendeva
la
sua
mano
immobile
col
dito
puntato.
Michelangelo
Merisi
si
alzò
e lo
seguì.
Sbucarono
in un
vicolo
sudicio,
e
Michelangelo
Merisi
si
mise
a
orinare
in un
canto
tutto
il
vino
che
aveva
bevuto
quella
sera.
Dio,
perché
mi
cerchi?,
chiese
Michelangelo
Merisi
al
Cristo.
Il
figlio
dell’uomo
lo
guardò
senza
rispondere.
Passeggiarono
lungo
il
vicolo
e
sbucarono
su
una
piazza.
La
piazza
era
deserta.
Sono
triste,
disse
Michelangelo
Merisi.
Il
Cristo
lo
guardò
e non
rispose.
Si
sedette
su
una
panchina
di
pietra
e si
tolse
i
sandali.
Si
massaggiò
i
piedi
e
disse:
sono
stanco,
sono
venuto
a
piedi
dalla
Palestina
per
cercarti.
Michelangelo
Merisi
stava
vomitando
appoggiato
al
muro
di un
cantone.
Ma io
sono
un
peccatore,
gridò,
non
devi
cercarmi.
Il
Cristo
si
avvicinò
e gli
toccò
un
braccio.
Io ti
ho
fatto
pittore,
disse,
e da
te
voglio
un
dipinto,
dopo
puoi
seguire
la
strada
del
tuo
destino.
Michelangelo
Merisi
si
pulì
la
bocca
e
chiese:
quale
dipinto?
La
visita
che
ti ho
fatto
stasera
nella
taverna,
solo
che
tu
sarai
Matteo.
D’accordo,
disse
Michelangelo
Merisi,
lo
farò.
E si
girò
nel
letto.
E in
quel
momento
la
prostituta
lo
abbracciò
russando.
La
notte
del
primo
maggio
del
1820,
mentre
la
sua
intermittente
pazzia
lo
visitava,
Francisco
Goya
y
Lucientes,
pittore
e
visionario,
fece
un
sogno.
Sognò
che
con
la
sua
amante
della
gioventù
stava
sotto
un
albero.
Era
l’austera
campagna
di
Aragona,
e il
sole
era
alto.
La
sua
amante
stava
su un
dondolo,
e lui
la
spingeva
per
la
vita.
La
sua
amante
aveva
un
ombrellino
di
pizzo
e
rideva
con
risate
brevi
e
nervose.
Poi
la
sua
amante
cadde
sul
prato
e lui
la
seguì
a
ruzzoloni.
Rotolarono
sulle
pendici
del
colle,
finché
arrivarono
a un
muro
giallo.
Si
affacciarono
al
muro
e
videro
dei
soldati,
illuminati
da
una
lanterna,
che
stavano
fucilando
degli
uomini.
La
lanterna
era
incongrua,
in
quel
paesaggio
assolato,
ma
illuminava
lividamente
la
scena.
I
soldati
spararono
e gli
uomini
caddero
coprendo
le
pozze
del
loro
sangue.
Allora
Francisco
Goya
y
Lucientes
sfilò
il
pennello
da
pittore
che
teneva
alla
cintura
e
avanzò
brandendolo
minacciosamente.
I
soldati,
come
per
incanto,
sparirono,
spaventati
da
quell’apparizione.
E al
loro
posto
apparve
un
gigante
orrendo
che
stava
divorando
una
gamba
umana.
Aveva
i
capelli
sporchi
e la
faccia
livida,
due
fili
di
sangue
gli
scorrevano
agli
angoli
della
bocca,
i
suoi
occhi
erano
velati,
però
rideva.
Chi
sei?,
gli
chiese
Francisco
Goya
y
Lucientes.
Il
gigante
si
pulì
la
bocca
e
disse:
sono
il
mostro
che
domina
l’umanità,
la
Storia
è mia
madre.
Francisco
Goya
y
Lucientes
fece
un
passo
e
brandì
il
suo
pennello.
Il
gigante
sparì
e al
suo
posto
apparve
una
vecchia.
Era
una
megera
sdentata,
con
la
pelle
di
cartapecora
e gli
occhi
gialli.
Chi
sei?,
le
chiese
Francisco
Goya
y
Lucientes.
Sono
la
disillusione,
disse
la
vecchia,
e
domino
il
mondo,
perché
ogni
sogno
umano
è
sogno
breve.
Francisco
Goya
y
Lucientes
fece
un
passo
e
brandì
il
suo
pennello.
La
vecchia
sparì
e al
suo
posto
apparve
un
cane.
Era
un
piccolo
cane
sepolto
nella
sabbia,
solo
la
testa
restava
fuori.
Chi
sei?,
gli
chiese
Francisco
Goya
y
Lucientes.
Il
cane
tirò
bene
fuori
il
collo
e
disse:
sono
la
bestia
della
disperazióne
e mi
prendo
gioco
delle
tue
pene.
Francisco
Goya
y
Lucientes
fece
un
passo
e
brandì
il
suo
pennello.
Il
cane
sparì
e al
suo
posto
apparve
un
uomo.
Era
un
vecchio
grasso,
con
la
faccia
bolsa
e
infelice.
Chi
sei?,
gli
chiese
Francisco
Goya
y
Lucientes.
L’uomo
fece
un
sorriso
stanco
e
disse:
sono
Francisco
Goya
y
Lucientes,
contro
di me
non
potrai
nulla.
E in
quel
momento
Francisco
Goya
y
Lucientes
si
svegliò
e si
ritrovò
solo
nel
suo
letto.
In
una
notte
di
ottobre
del
165
dopo
Cristo,
nella
città
di
Cartagine,
Lucio
Apuleio,
scrittore
e
mago,
fece
un
sogno.
Sognò
di
trovarsi
in
una
cittadina
della
Numidia,
era
la
sera
di
una
torrida
estate
africana,
lui
passeggiava
vicino
alla
porta
principale
della
città
quando
fu
attirato
da
risa
e da
schiamazzi.
Attraversò
la
porta
e
vide
che
vicino
alle
rosse
mura
d’argilla
c’era
un
gruppo
di
saltimbanchi
che
davano
spettacolo.
Un
acrobata
seminudo,
col
corpo
tinto
di
biacca,
si
dimenava
in
bilico
su
una
corda
fingendo
di
essere
sul
punto
di
cadere.
La
folla
rideva
e
temeva,
e i
cani
abbaiavano.
Poi
l’acrobata
perse
l’equilibrio,
ma si
afferrò
con
una
mano
alla
corda
restando
appeso.
La
folla
ruppe
in un
grido
di
spavento
e poi
applaudì
contenta.
I
saltimbanchi
girarono
un
argano
che
teneva
tesa
la
corda
e
l’acrobata
si
calò
a
terra
facendo
mille
smorfie.
Un
pifferaio
avanzò
nel
cerchio
di
terra
battuta
illuminata
dai
bagliori
dei
fuochi
e
cominciò
a
suonare
una
musica
orientaleggiante.
E
allora
da un
carrozzone
uscì
una
donna
dai
seni
abbondanti,
coperta
di
veli,
che
teneva
in
mano
una
frusta.
La
donna
avanzò
frustando
l’aria
e si
avvolse
il
corpo
con
lo
scudiscio.
Era
una
donna
dalla
capigliatura
mora
e
dalle
occhiaie
profonde,
e il
belletto
del
viso,
a
causa
del
sudore,
le
colava
lungo
le
guance.
Apuleio
avrebbe
voluto
andarsene,
ma
una
forza
misteriosa
lo
obbligava
a
restare,
a
tenere
gli
occhi
fissi
su
quella
femmina.
I
tamburi
cominciarono
a
suonare,
prima
lentamente
e poi
con
frenesia,
e a
quel
punto,
da
sotto
il
telone
dove
stavano
le
bestie,
uscirono
quattro
maestosi
cavalli
bianchi
e un
povero
asino
stanco.
La
danzatrice
fece
schioccare
la
frusta
e i
cavalli
si
impennarono
dando
inizio
a un
veloce
carosello.
L’asino
si
adagiò
da
una
parte,
vicino
alle
gabbie
delle
scimmie,
e con
la
coda
prese
lentamente
a
scacciarsi
le
mosche.
La
danzatrice
fece
schioccare
nuovamente
la
frusta
e i
cavalli
si
fermarono
e si
inginocchiarono
emettendo
lunghi
nitriti.
Allora
la
donna,
con
un’insospettata
agilità
per
la
sua
corpulenza,
spiccò
un
balzo
e
tenendo
un
piede
su un
cavallo
e un
piede
sull’altro,
cominciò
a
cavalcare
due
bestie
tenendosi
ritta
con
le
gambe
divaricate
sulle
loro
groppe.
E
cavalcando
agitava
oscenamente
il
manico
della
frusta
davanti
al
ventre,
mentre
la
folla
mormorava
per
il
divertimento.
Allora
i
tamburi
smisero
di
suonare
e
l’asino
stanco,
come
se
obbedisse
a un
ordine
invisibile,
si
girò
sulla
schiena,
con
le
zampe
all’aria,
ed
esibì
al
pubblico
il
suo
fallo
eretto.
La
donna,
girando
in
tondo,
gridava
che
al
proseguimento
dello
spettacolo
potevano
restare
solo
quelli
che
avrebbero
pagato
monete
suonanti,
e due
saltimbanchi
vestiti
da
guardie,
muniti
di
frusta,
cacciarono
i
ragazzi
e i
mendicanti.
Apuleio
si
ritrovò
solo,
nel
cerchio
dei
pochi.
Trasse
dalla
borsa
due
monete
d’argento,
pagò,
poi
si
mise
a
guardare
lo
spettacolo.
La
donna
afferrò
il
fallo
dell’asino
e
strusciandoselo
con
lussuria
sul
ventre
cominciò
a
danzare
una
languida
danza,
scostando
i
veli
per
mostrare
le
sue
grazie.
Apuleio
si
avvicinò
e
alzò
una
mano,
e
allora
l’asino
aprì
la
bocca,
ma
invece
di
ragliare
emise
parole
umane.
Sono
Lucio,
disse,
non
mi
riconosci?
Quale
Lucio?,
chiese
Apuleio.
Il
tuo
Lucio,
disse
l’asino,
quello
delle
tue
avventure,
il
tuo
amico
Lucio.
Apuleio
si
guardò
intorno
convinto
che
la
voce
venisse
dalle
vicinanze,
ma la
porta
delle
mura
era
già
chiusa,
le
sentinelle
dormivano
e
dietro
di
lui
respirava
silenziosa
la
fonda
notte
africana.
Questa
strega
mi ha
fatto
un
maleficio,
disse
l’asino,
mi ha
imprigionato
in
queste
sembianze,
solo
tu
puoi
liberarmi,
tu
che
sei
scrittore
e
mago.
Apuleio
balzò
verso
il
fuoco
e
afferrò
un
tizzone
ardente,
tracciò
nell’aria
dei
segni,
pronunciò
le
parole
che
sapeva
di
dover
pronunciare.
La
donna
gridò,
sulla
bocca
le si
disegnò
una
smorfia
di
disgusto
e il
suo
volto
cominciò
a
raggrinzirsi
assumendo
le
sembianze
di
una
vecchia.
Allora,
come
per
incanto,
la
donna
si
dissolse
nell’aria,
e con
lei
sparirono
i
saltimbanchi,
la
cinta
delle
mura,
la
notte
africana.
Improvvisamente
fu il
giorno:
era
una
splendida
gior
nata
di
luce,
a
Roma,
Apuleio
passeggiava
lungo
il
Foro
e
accanto
a lui
passeggiava
l’amico
Lucio.
Passeggiando
chiacchieravano,
e
intanto
guardavano
le
schiave
più
belle
che
si
aggiravano
per
il
mercato.
A un
certo
punto
Apuleio
si
fermò
e
trattenendo
Lucio
per
la
tunica
lo
guardò
negli
occhi
e gli
disse:
stanotte
ho
fatto
un
sogno.
|
Una
notte
dei
primi
di
dicembre
del
1827,
nella
bella
città
di
Pisa,
in
via
della
Faggiola,
dormendo
fra
due
materassi
per
proteggersi
dal
terribile
freddo
che
stringeva
la
città,
Giacomo
Leopardi,
poeta
e
lunatico,
fece
un
sogno.
Sognò
che
si
trovava
in un
deserto,
e che
era
un
pastore.
Ma,
invece
di
avere
un
gregge
che
lo
seguiva,
stava
comodamente
seduto
su un
calesse
trainato
da
quattro
pecore
candide,
e
quelle
quattro
pecore
erano
il
suo
gregge.
Il
deserto,
e le
colline
che
lo
orlavano,
erano
di
una
finissima
sabbia
d’argento
che
riluceva
come
la
luce
delle
lucciole.
Era
di
notte
ma
non
faceva
freddo,
anzi,
pareva
una
bella
nottata
di
tarda
primavera,
così
che
Leopardi
si
tolse
il
pastrano
con
cui
era
coperto
e lo
appoggiò
sul
bracciale
del
calesse.
Dove
mi
portate,
mie
care
pecorelle?,
chiese.
Ti
portiamo
a
spasso,
risposero
le
quattro
pecore,
noi
siamo
delle
pecorelle
vagabonde.
Ma
cos’è
questo
luogo?,
chiese
Leopardi,
dove
ci
troviamo?
Poi
lo
scoprirai,
risposero
le
pecorelle,
quando
avrai
incontrato
la
persona
che
ti
aspetta.
Chi è
questa
persona?,
chiese
Leopardi,
lo
vorrei
proprio
sapere.
Eh
eh,
risero
le
pecorelle
guardandosi
fra
di
loro,
noi
non
possiamo
dirtelo,
deve
essere
una
sorpresa.
Leopardi
aveva
fame,
e
avrebbe
avuto
voglia
di
mangiare
un
dolce;
una
bella
torta
con i
pinoli
era
proprio
quello
di
cui
aveva
voglia.
Vorrei
un
dolce,
disse,
non
c’è
un
luogo
in
cui
si
possa
comprare
un
dolce
in
questo
deserto?
Subito
dietro
quella
collina,
risposero
le
pecorelle,
abbi
un
po’
di
pazienza.
Arrivarono
in
fondo
al
deserto
e
aggirarono
la
collina,
ai
piedi
della
quale
c’era
una
bottega.
Era
una
bella
pasticceria
tutta
di
cristallo
e
sfavillava
di
una
luce
di
arge
nto.
Leopardi
si
mise
a
guardare
la
vetrina,
indeciso
su
cosa
scegliere.
In
prima
fila
c’erano
le
torte,
di
tutti
i
colori
e di
tutte
le
dimensioni:
torte
verdi
di
pistacchio,
torte
vermiglie
di
lamponi,
torte
gialle
di
limone,
torte
rosa
di
fragola.
Poi
c’erano
i
marzapane,
in
forme
buffe
o
appetitose:
fatti
a
mela
e ad
arancia,
fatti
a
ciliegia,
o in
forma
di
animali.
E
infine
venivano
gli
zabaioni,
cremosi
e
densi,
con
una
mandorla
sopra.
Leopardi
chiamò
il
pastic
-cere
e
comprò
tre
dolci:
un
tortino
di
fragole,
un
marzapane
e uno
zabaione.
Il
pasticcere
era
un
omino
tutto
d’argento,
con i
capelli
candidi
e gli
occhi
azzurri,
che
gli
dette
i
dolci
e per
omaggio
una
scatola
di
cioccolatini.
Leopardi
risalì
sul
calesse
e
mentre
le
pecorelle
si
rimettevano
in
cammino
si
mise
a
degustare
le
squisitezze
che
aveva
comprato.
La
strada
aveva
preso
a
salire,
e ora
si
inerpicava
sulla
collina.
E,
che
strano,
anche
quel
terreno
riluceva,
era
traslucido
e
mandava
un
bagliore
d’argento.
Le
pecorelle
si
fermarono
davanti
a una
casetta
che
sfavillava
nella
notte.
Leopardi
scese
perché
capì
di
essere
arrivato,
prese
la
scatola
di
cioccolatini
e
entrò
nella
casa.
Dentro
c’era
una
ragazza
seduta
su
una
sedia
che
ricamava
su un
tamburello.
Vieni
avanti,
ti
aspettavo,
disse
la
ragazza.
Si
girò
e gli
sorrise,
e
Leopardi
la
riconobbe.
Era
Silvia.
Solo
che
ora
era
tutta
d’argento,
aveva
le
stesse
sembianze
di un
tempo,
ma
era
d’argento.
Silvia,
cara
Silvia,
disse
Leopardi
prendendole
le
mani,
come
è
dolce
rivederti,
ma
perché
sei
tutta
d’argento?
Perché
sono
una
selenita,
rispose
Silvia,
quando
si
muore
si
viene
sulla
luna
e si
diventa
così.
Ma
perché
anch’io
sono
qui,
chiese
Leopardi,
sono
forse
morto?
Questo
non
sei
tu,
disse
Silvia,
è
solo
la
tua
idea,
tu
sei
ancora
sulla
terra.
E da
qui
si
può
vedere
la
terra?,
chiese
Leopardi.
Silvia
lo
condusse
a una
finestra
dove
c’era
un
cannocchiale.
Leopardi
avvicinò
l’occhio
alla
lente
e
subito
vide
un
palazzo.
Lo
riconobbe:
era
il
suo
palazzo.
Una
finestra
era
ancora
accesa,
Leopardi
ci
guardò
dentro
e
vide
suo
padre,
con
la
camicia
da
notte
e il
pitale
in
mano,
che
stava
andando
a
letto.
Sentì
una
fitta
al
cuore
e
spostò
il
cannocchiale.
Vide
una
torre
pendente
su un
grande
prato
e,
vicino,
una
strada
tortuosa
con
un
palazzo
dove
c’era
un
debole
lume.
Si
sforzò
di
guardare
dentro
la
finestra
e
vide
una
stanza
modesta,
con
un
cassettone
e un
tavolo
sul
quale
c’era
un
quaderno
accanto
a cui
si
stava
consumando
un
mozzicone
di
candela.
Dentro
al
letto
vide
se
stesso,
che
dormiva
fra
due
materassi.
Sono
morto?,
chiese
a
Silvia.
No,
disse
Silvia,
stai
solo
dormendo
e
sogni
la
luna.
La
notte
de l
ventinove
giugno
del
1893,
una
limpida
notte
d’estate,
Achille
-Claude
Debussy,
musicista
e
esteta,
sognò
che
si
trovava
su
una
spiaggia.
Era
una
spiaggia
della
maremma
toscana,
orlata
di
macchia
bassa
e di
pini.
Debussy
arrivò
con
dei
pantaloni
di
lino
e un
cappello
di
paglia,
entrò
nel
capanno
che
gli
aveva
assegnato
la
Pinky
e si
tolse
il
vestito.
Intravvide
la
Pinky
sulla
spiaggia,
ma
invece
di
farle
un
cenno
di
saluto
scivolò
nell’ombra
del
capanno.
La
Pinky
era
una
bella
signora
proprietaria
di
una
villa,
si
occupava
dei
rari
bagnanti
sulla
sua
spiaggia
privata
e
girava
sulla
marina
coperta
da un
velo
azzurro
che
le
scendeva
dal
cappello.
Apparteneva
a una
vecchia
nobiltà
e
parlava
a
tutti
dando
del
tu.
Questo
non
piaceva
a
Debussy,
che
amava
essere
trattato
con
formule
di
cortesia.
Prima
di
infilarsi
il
costume
fece
alcune
flessioni
sulle
ginocchia
e poi
si
accarezzò
a
lungo
il
sesso,
che
era
semieretto,
perché
la
visione
di
quella
spiaggia
solitària,
col
sole
e
l’azzurro
del
mare,
gli
dava
una
certa
eccitazione.
Indossò
un
costume
austero,
di
colore
blu,
con
due
stellette
bianche
sulle
spalle.
E in
quel
momento
vide
che
la
Pinky,
lei e
i
suoi
due
alani
che
l’accompagnavano
sempre,
era
sparita,
e
sulla
spiaggia
non
c’era
nessuno.
Debussy
attraversò
la
spiaggia
con
una
bottiglia
di
champagne
che
aveva
portato
con
sé.
Arrivato
sul
bagnasciuga
scavò
una
piccola
buca
nella
sabbia
e vi
infilò
la
bottiglia
perché
restasse
in
fresco,
poi
entrò
in
mare
e
nuotò.
Sentì
subito
il
benefico
influsso
dell’acqua.
Amava
il
mare
più
di
ogni
cosa
e
avrebbe
voluto
dedicargli
una
musica.
Il
sole
era
allo
zenit
e la
superficie
dell’acqua
sfavillava.
Debussy
rientrò
calmamente,
con
ampie
bracciate.
Quando
arrivò
sulla
spiaggia
dissotterrò
la
bottiglia
di
champagne
e ne
bevve
circa
la
metà.
Gli
parve
che
il
tempo
si
fosse
fermato
e
pensò
che
la
musica
doveva
fare
questo:
fermare
il
tempo.
Si
avviò
verso
il
capanno
e si
spogliò.
Mentre
si
spogliava
sentì
dei
rumori
nella
macchia
e si
affacciò.
Fra i
cespugli,
a
pochi
metri
davanti
a sé,
vide
un
fauno
che
corteggiava
due
ninfe.
Una
ninfa
accarezzava
le
spalle
del
fauno,
mentre
l’altra,
con
grande
languore,
faceva
dei
movimenti
di
danza.
Debussy
provò
una
grande
spossatezza
e
cominciò
a
carezzarsi
piano
piano.
Poi
avanzò
nella
macchia.
Quando
lo
videro
arrivare,
i tre
esseri
gli
sorrisero
e il
fauno
cominciò
a
suonare
uno
zufolo.
Era
proprio
la
musica
che
Debussy
avrebbe
voluto
comporre,
e
mentalmente
la
registrò.
Poi
si
sedette
sugli
aghi
dei
pini,
con
il
sesso
eretto.
Allora
il
fauno
si
prese
una
ninfa
e si
allacciò
con
lei.
E
l’altra
ninfa
andò
vicino
a
Debussy
con
un
agile
passo
di
danza
e lo
accarezzò
sul
ventre.
Era
il
pomeriggio,
e il
tempo
era
immobile.
|
Una
notte
di
marzo
del
1890,
in un
bordello
di
Parigi,
dopo
aver
dipinto
il
manifesto
per
una
ballerina
che
amava
non
corrisposto,
Henri
de
Toulouse-Lautrec,
pittore
e
uomo
infelice,
fece
un
sogno.
Sognò
che
era
nelle
campagne
della
sua
Albi,
e che
era
d’estate.
Lui
si
trovava
sotto
un
ciliegio
carico
di
ciliegie
e
avrebbe
voluto
coglierne
qualcuna,
ma le
sue
gambette
corte
e
deformi
non
gli
permettevano
di
raggiungere
il
primo
ramo
carico
di
frutti.
Allora
si
alzò
sulla
punta
dei
piedi
e,
come
se
fosse
la
cosa
più
naturale
del
mondo,
le
sue
gambe
cominciarono
ad
allungarsi
fino
a che
non
raggiunsero
una
lunghezza
normale.
Dopo
che
ebbe
colto
le
ciliegie
le
sue
gambe
cominciarono
di
nuovo
ad
accorciarsi
e
Henri
de
Toulouse-Lautrec
si
ritrovò
alla
sua
altezza
di
nane-rottolo.
Toh,
esclamò,
dunque
posso
crescere
a mio
piacimento.
E si
sentì
felice.
Cominciò
ad
attraversare
un
campo
di
grano.
Le
spighe
lo
sovrastavano
e la
sua
testa
apriva
un
solco
fra
le
messi.
Gli
pareva
di
essere
in
una
strana
foresta
dove
andava
avanti
alla
cieca.
In
fondo
al
campo
c’era
un
ruscello.
Henri
de
Tou
louse-Lautrec
vi si
specchiò
e
vide
un
brutto
nano
dalle
gambe
deformi
vestito
con
dei
pantaloni
a
quadri
e con
un
cappello
in
testa.
Allora
si
alzò
sulla
punta
dei
piedi
e le
sue
gambe
si
allungarono
gentilmente,
egli
diventò
un
uomo
normale
e
l’acqua
gli
restituì
l’immagine
di un
bel
giovane
elegante.
Henri
de
Toulouse-Lautrec
si
accorciò
di
nuovo,
si
spogliò
e si
immerse
nel
ruscello
per
rinfrescarsi.
Quando
ebbe
fatto
il
bagno
si
asciugò
al
sole,
si
rivestì
e si
mise
in
cammino.
Stava
calando
la
sera,
e in
fondo
alla
pianura
vide
una
corona
di
luci.
Vi si
diresse
caracollando
sulle
sue
gambette
corte
e
quando
vi
arrivò
si
accorse
di
essere
a
Parigi.
Era
l’edificio
del
Moulin
Rouge,
con
le
pale
del
mulino
illuminate
che
giravano
sul
tetto.
Una
grande
folla
premeva
all’ingresso,
e
vicino
alla
biglietteria
un
grande
manifesto
dai
colori
sgargianti
annunciava
lo
spettacolo
della
serata,
un
can-can.
Il
manifesto
riproduceva
una
ballerina
che
tenendo
sollevate
le
gonne
danzava
sul
proscenio,
proprio
di
fronte
alle
lampade
a
gas. |
La
notte
del
sette
marzo
del
1914,
Fernando
Pessoa,
poeta
e
fingitore,
sognò
di
svegliarsi.
Prese
il
caffè
nella
sua
piccola
stanza
d’affitto,
si
fece
la
barba
e si
vestì
in
modo
elegante.
Indossò
il
suo
impermeabile,
perché
fuori
pioveva.
Quando
uscì
mancavano
venti
minuti
alle
otto,
e
alle
otto
in
punto
era
alla
stazione
centrale,
sul
marciapiede
del
treno
diretto
a
Santarém.
Il
treno
partì
con
la
massima
puntualità,
alle
8.05.
Fernando
Pessoa
prese
posto
in un
compartimento
nel
quale
era
seduta
una
signora
dall’apparente
età
di
cinquant’anni,
che
stava
leggendo.
Essa
era
sua
madre
ma
non
era
sua
madre,
ed
era
immersa
nella
lettura.
Anche
Fernando
Pessoa
si
mise
a
leggere.
Quel
giorno
doveva
leggere
due
lettere
che
gli
erano
arrivate
dal
Sud
Africa
e che
gli
parlavano
di
un’infanzia
lontana.
Fui
come
erba
e non
mi
strapparono,
disse
a un
certo
punto
la
signora
dall’apparente
età
di
cinquant’anni.
La
frase
piacque
a
Fernando
Pessoa,
che
l’appuntò
su un
taccuino.
Intanto,
davanti
a
loro,
passava
il
piatto
paesaggio
del
Ribatejo,
con
risaie
e
praterie.
Quando
arrivarono
a
Santarém,
Fernando
Pessoa
prese
una
carrozza.
Lei
sa
dove
è una
casa
sola
imbiancata
a
calce?,
chiese
al
vetturino.
Il
vetturino
era
un
ometto
grassoccio,
col
naso
reso
rubicondo
dall’alcol.
Certo,
disse,
è la
casa
del
signor
Caeiro,
io la
conosco
bene.
E
frustò
il
cavallo.
Il
cavallo
cominciò
a
trotterella
re
sulla
strada
maestra
fiancheggiata
da
palmizi.
Nei
campi
si
vedevano
capanne
di
paglia
con
qualche
negro
sulla
porta.
Ma
dove
siamo?,
chiese
Pessoa
al
vetturino,
dove
mi
porta?
Siamo
in
Sud
Africa,
rispose
il
vetturino,
e la
sto
portando
a
casa
del
signor
Caeiro.
Pessoa
si
sentì
rassicurato
e si
appoggiò
allo
schienale
del
sedile.
Ah,
dunque
era
in
Sud
Africa,
era
proprio
quello
che
voleva.
Incrociò
le
gambe
con
soddisfazione
e
vide
le
sue
caviglie
nude,
dentro
due
pantaloni
alla
marinara.
Capì
che
era
un
bambino
e
questo
lo
rallegrò
molto.
Era
bello
essere
un
bambino
che
viaggiava
per
il
Sud
Africa.
Tirò
fuori
un
pacchetto
di
sigarette
e se
ne
accese
una
con
voluttà.
Ne
offrì
una
anche
al
vetturino
che
accettò
avidamente.
Stava
calando
il
crepuscolo
quando
arrivarono
in
vista
di
una
casa
bianca
che
stava
su un
colle
punteggiato
di
cipressi.
Era
una
tipica
casa
ribatejana,
lunga
e
bassa,
con
le
tegole
rosse
spioventi.
La
carrozza
imboccò
il
viale
di
cipressi,
il
ghiaino
scricchiolò
sotto
le
ruote,
un
cane
abbaiò
nella
campagna.
Sulla
porta
di
casa
c’era
una
vecchietta
con
gli
occhiali
e una
cuffia
candida.
Pessoa
capì
subito
che
si
trattava
della
prozia
di
Alberto
Caeiro,
e
alzandosi
sulla
punta
dei
piedi
la
baciò
sulle
guance.
|
Mia
Cara,credo
che
il
diametro
di
quest’isola
non
superi
i
cinquanta
chilometri,
al
massimo.
C’è
una
strada
costiera
che
la
gira
tutta
in
tondo,
stretta,
spesso
a
picco
sul
mare,
altrimenti
pianeggiando
in
coste
brulle
che
scendono
a
solitàrie
spiaggette
di
ghiaia
orlate
di
tamerici
bruciate
dal
salino,
e in
alcune
a
volte
mi
fermo.
Da
una
di
queste
ti
parlo,
a
bassa
voce,
perché
il
meriggio
e il
mare
e
questa
luce
bianca
ti
hanno
fatto
chiudere
le
palpebre,
stesa
qui
accanto
a me,
vedo
il
tuo
seno
che
si
solleva
al
ritmo
pausato
della
respirazione
di
chi
sta
dormendo
e non
voglio
svegliarti.
Come
piacerebbe
questo
luogo
a
certi
poeti
che
conosciamo,
perché
è
così
scabro,
essenziale,
fatto
di
pietre,
montagnole
brulle,
spini,
capre.
Mi è
perfino
venuto
da
pensare
che
quest’isola
non
esista,
e di
averla
trovata
solo
perché
la
stavo
immaginando.
Non è
un
luogo,
è un
buco:
intendo
della
rete.
C’è
una
rete
nella
quale
pare
sia
ormai
impossibile
non
essere
catturati,
ed è
una
rete
a
strascico.
In
questa
rete
io
insisto
a
cercare
buchi.
Ora
mi
pareva
quasi
di
aver
sentito
la
tua
risatina
ironica:
“E
dagli,
cirisiamo
! “.
E
invece
no:
hai
le
palpebre
chiuse
e non
ti
sei
mossa.
Me lo
sono
solo
immaginato.
Che
ore
saranno?
Non
ho
portato
l’orologio,
che
del
resto
qui è
del
tutto
superfluo.
Ma ti
stavo
descrivendo
questo
luogo.
La
prima
cosa
a cui
fa
pensare
è a
com’è
troppo
il
troppo
che
il
nostro
tempo
ci
offre,
almeno
a noi
che
per
fortuna
stiamo
dalla
parte
migliore.
Invece
guarda
le
capre:
sopravvivono
con
niente,
mangiano
anche
i
pruni
e
leccano
perfino
il
sale.
Quanto
più
le
guardo,
più
mi
piacciono,
le
capre.
Su
questa
spiaggetta
ce
n’è
sette
o
otto
che
si
aggirano
fra i
sassi,
senza
pastore,
probabilmente
appartengono
ai
proprietari
della
casetta
dove
mi
sono
fermato
a
mezzogiorno.
C’è
una
specie
di
caffè
sotto
un’incannicciata
dove
si
possono
mangiare
olive,
formaggio
e
melone.
La
vecchietta
che
mi ha
servito
è
sorda
e ho
dovuto
gridare
per
chiedere
queste
poche
cose,
mi ha
detto
che
suo
marito
arrivava
subito,
ma
suo
marito
non
l’ho
visto,
forse
è una
sua
fantasia,
oppure
ho
capito
male.
Il
formaggio
lo fa
lei
con
le
sue
mani,
mi ha
portato
nel
cortile
di
casa,
uno
spiazzo
polveroso
circondato
da un
muro
a
secco
pieno
di
cardi
dove
c’è
l’ovile
delle
caprette.
Le ho
fatto
un
segno
con
la
mano
a
falce,
come
per
significare
che
dovrebbe
tagliare
i
cardi
che
bucano
e nei
quali
si
inciampa.
Lei
mi ha
risposto
con
un
segno
identico,
ma
più
deciso.
Chissà
cosa
voleva
dire
con
quella
mano
che
tagliava
l’aria
come
una
lama.
Accanto
alle
stalle
il
casale
si
prolonga
in
una
specie
di
cantina
scavata
nella
roccia
dove
lei
fabbrica
il
suo
formaggio,
che è
poco
più
di
una
ricotta
salata
fatta
stagionare
al
buio,
con
una
crosta
rossastra
di
peperoncino.
Il
suo
laboratorio
è una
stanza
scavata
nella
pietra,
freschina,
direi
gelida.
C’è
uno
scrematoio
di
granito
dove
lascia
cagliare
il
latte
e un
mastello
dove
lavora
il
siero,
su
una
tavola
rugosa
e
inclinata
sulla
quale
impasta
il
caglio
come
se
fossero
dei
panni
su un
lavatoio,
strizzandolo
perché
ne
esca
tutta
l’acqua;
e poi
lo
infila
in
due
forme
dove
esso
rassoda,
sono
forme
di
legno
che
si
aprono
e si
chiudono
a
morsa,
una è
rotonda,
e
questo
è
normale,
mentre
l’altra
ha la
figura
di un
asso
di
picche,
o
almeno
a me
è
sembrato
così,
perché
ricorda
il
seme
delle
nostre
carte
da
gioco.
Ho
comprato
una
forma
di
formaggio
e
avrei
voluto
quella
fatta
come
l’asso
di
picche,
ma la
vecchia
me
l’ha
rifiutata
e mi
sono
dovuto
accontentare
di
quella
rotonda.
Le ho
chiesto
una
spiegazione
e ne
ho
cavato
dei
mugugni
sgraziati
e
gutturali,
quasi
stridenti,
accompagnati
da
gesti
indecifrabili:
si
circondava
la
circonferenza
del
ventre
e si
toccava
il
cuore.
Chissà:
forse
voleva
significare
che
quel
tipo
di
formaggio
è
riservato
solo
a
certe
cerimonie
essenziali
alla
vita:
la
nascita,
la
morte.
Ma
come
ti
dicevo,
forse
è
solo
l’interpretazione
della
mia
fantasia
che
di
sovente
galoppa,
come
sai.
Ad
ogni
modo
il
formaggio
è
squisito,
fra
queste
due
fette
di
pane
scuro
che
sto
mangiando
dopo
avervi
versato
un
filo
d’olio
d’oliva,
che
qui
non
manca,
e
qualche
foglia
di
timo
che
condisce
ogni
piatto,
dal
pesce
al
coniglio
selvatico.
Avrei
voluto
chiederti
se
anche
tu
avevi
appetito:
guarda,
è
squisito,
ti ho
detto,
è una
cosa
irripetibile,
fra
un
po’
sarà
sparito
anche
lui
nella
rete
che
ci
sta
avvolgendo,
per
questo
formaggio
non
ci
sono
buchi
né
vie
d’uscita,
approfittane.
Ma
non
volevo
disturbarti,
era
così
bello
il
tuo
sonno,
e
così
giusto,
e ho
taciuto.
Ho
visto
passare
un
bastimento
in
lontananza
e ho
pensato
alla
parola
che
ti
stavo
scrivendo:
bastimento.
Ho
visto
passare
un
bastimento
carico
di?...
Indovina.
|
Peccato
che
l’impollinazione
non
sia
contemplata
nelle
abitudini
sessuali
della
nostra
specie.
Sarebbe
fantastico.
Noi
qui
col
nostro
bocciolo,
loro
lì
con i
rispettivi
pistilli,
ciascuno
nella
propria
aiuola
e
fanno
tutto
le
api.
E
invece
no.
Sempre
lì a
pestarci
gli
alluci.
L’uomo
del
mio
destino
ha
un’abitudine
che
lo
ammazzerei
con
le
mie
mani
non
fosse
che
pesa
otto
volte
me.
Quando
deve
riavvitare
la
caffettiera
la
stringe
fino
allo
spasimo.
La
lucchetta
in
una
morsa
diabolica.
Potesse
ci
piazzerebbe
sopra
anche
i
sigilli
di
ceralacca.
E se
io
decido
di
farmi
un
caffè
per
riaprirla
devo
prenderla
a
morsi
o
chiamare
i
vigili
del
fuoco.
Tanto
svitarla
per
lui...
tric,
è un
attimo.
E che
ci
vuole?
Ci
vuole
che
ti
odio.
Ci
vogliono
dei
bicipiti
come
i
tuoi,
esondato
nel
cranio!
Stessa
cosa
per
il
freno
a
mano.
Tira
che
ti
ritira
prima
o poi
si
staccherà.
Prego
il
cielo
ogni
giorno.
E poi
cosa
metti
il
freno
a
mano
a
fare?
Abitassimo
a
Salice
d’Ulzio
lo
capirei.
Ma
via
Juvarra
è
tutta
in
piano.
Non
posso
passare
le
mattine
a
prendere
a
roncolate
la
leva
del
freno
col
tacco
dello
stivale
che è
di
gomma
e mi
rimbalza
sul
naso.
Per
quanto
tempo
ancora
dovrò
chiedere
aiuto
ai
passanti
che
già
da
anni
si
erano
fatti
l’idea
che
fossi
deficiente
e in
questo
caso
ne
hanno
la
conferma?
E poi
ditemi.
I
vostri
boy
come
sparecchiano?
Il
mio,
che è
un
pirla
praticante,
con
la
tecnica
del
discobolo.
A
lancio.
Tutto
si
tira
e
tutto
si
distrugge.
Si
butta
in
frigo
a
caso,
a
mosca
cieca.
Così
la
mozzarella
finisce
nel
portauovo,
il
prosciutto
nel
cassetto
della
verdura
e la
pentola
della
minestra,
visto
che
scagliarla
è un
po’
un
azzardo,
la si
appoggia
in
bilico
su
due
mandarini.
Un
raro
caso
diminestra
basculante. |
Ci
vuole
calma,
Molly.
Calma
e
sangue
freddo,
come
dice
quello
là.
«La
fai
facile
tu.
Guarda
che
faccia.»
Ma se
sei
un
fiore.
«Sono
un
cardo
gobbo.»
Fidanzati?
«Nisba.
Ho
gli
ormoni
in
letargo.»
Ma
non
sei
stata
a
Carrù?
Non
l’hai
trovato
un
tocco
di
bue
grasso
da
far
bollire
nel
tuo
brodo?
«Macché.»
Vedrai
che
adesso
che
hanno
scovato
il
punto
L per
i
maschi
sarà
tutta
un’altra
vita.
«Il
punto
L?
Cos’è?
Una
nuova
tecnica
di
ricamo?»
No,
niente
a che
vedere
col
punto
croce,
il
punto
erba
e il
mezzo
punto.
Il
punto
L fa
il
paio
col
punto
G.
Zone
super
erogene,
per
intenderci.
Il
punto
G
l’aveva
scovato
un
ginecologo
tedesco
che
di
nome
faceva
Grafemberg.
«Grafemberg?
Mi
sembra
più
il
nome
di un
Emmenthal.
Che
ne
sapeva
lui,
che
era
un
maschio,
di
quale
fosse
il
punto
di
maggior
piacere
in
una
donna?»
Infatti.
Forse
era
solo
un
mitomane
che
credeva
di
far
impazzire
le
femmine
a
letto
sfiorandole
sempre
nello
stesso
punto.
Magari
loro
gridavano
per
il
solletico.
O
erano
sospirarti
di
noia.
Comunque
pare
che i
nostri
cichi
latini,
in
fatto
di
giri
di
lenzuola,
se la
cavino
benino.
Pensa
che
invece
in
America
il
30%
dei
maschi
ha
problemi.
«Te
credo.
Mangiano
come
orchi.
Hanno
una
sbudrega
dell’accidenti.
Hanno
problemi
perché
non
se lo
trovano
più.» |
Imbecilli
si
nasce
o si
diventa?
Chissà.
Una
cosa
è
certa.
Qualcuno
parte
già
avvantaggiato.
Jolanda
per
esempio.
A 39
anni
e tre
quarti
non
ha
ancora
trovato
uno
straccio
di
gladiatore
con
cui
dividere
il
futon.
Così
per
non
sprecare
l’amore
si è
riempita
la
casa
di
bestie
e
parla
con
loro.
Ma
non
come
san
Francesco.
Più
come
Del
Piero.
Solo
che
lui
parla
con
gli
uccelli
e lei
con
quelli
non
ci
riesce.
È
l’unica
specie
con
cui
non
ha
dialogo.
Ieri
mi ha
detto:
«Sai
che
Sushi,
il
mio
pesce
rosso,
quando
mi
avvicino
mi
riconosce
e mi
fa le
feste?».
E
come
fai a
capirlo?
«Be’,
agita
molto
le
branchie.»
Jolanda?
Cortesemente.
Se
potessi
farti
furba
te ne
sarei
grata.
Sushi
è un
pesce.
E i
pesci
respirano
con
le
branchie.
Solo
che
lui
fa
più
fatica.
È
obeso,
pesa
come
una
carpa
perché
lo
nutrì
solo
a
briciole
di
pandoro.
Nel
ripiano
sopra
il
caminetto
troneggia
una
gabbia
con
due
minuscoli
criceti:
Mimì
e
Comò.
Comò
è
grassoccio,
un
roditore
decisamente
fuori
forma.
Due
bestioline
innamoratissime
che
fanno
sesso
da
mane
a
sera.
Jolanda
ha
sperato
per
mesi
di
diventare
nonna.
Si è
anche
informata
col
veterinario
se
esistesse
una
microepidurale
per
rendere
ilparto
di
Mimì
meno
doloroso.
Da
poco
ha
scoperto
che
non
fanno
cuccioli
perché
son
due
maschi.
E
lei,
che
vota
radicale
ed è
stata
sempre
solidale
con
le
minoranze,
ha
sparso
la
voce
e ha
creato
la
prima
comunità
di
criceti
gay.
|
Aiuto.
Sento
che
sto
invecchiando.
Non
mi
reggono
più
le
giunture.
Cigolano.
Anche
i
gomiti
non
son
più
quelli
di
una
volta.
Gli
anziani
dicono:
cambia
il
tempo,
c’ho
i
dolori.
Ecco.
Anch’io:
cambia
il
tempo
e
c’ho
i
dolori.
Anzi.
Cambia
il
mondo
e
c’ho
i
dolori.
In
generale.
Dolori
vari.
Misti.
Gli
anziani
non
perdono
tempo
a
specificare.
È
così
prezioso
ormai
il
tempo,
per
loro,
che
non
vale
proprio
la
pena
sprecarlo
in
dettagli.
Anche
le
donne
quando
c’hanno
il
ciclo
dicono:
c’ho
le
mie
cose.
Però
quella
è
un’espressione
che
detesto
profondamente.
Sono
passati
secoli
eppure
in
questo
nuovo
mondo
noi
femminielle
continuiamo
a
dire:
c’ho
le
mie
cose.
Ma
cose
cosa?
Quali
cose?
Dillo.
Qual
è il
problema?
Forse
è
perché
quella
parola
là
non
suona
tanto
bene,
con
‘sto
«stru»
centrale
che
sdrucciola.
C’ho
le
mie
cose,
magari
detto
anche
sottovoce,
invece
dà
l’idea
di
una
roba
un
po’
carbonara,
fatta
in
gran
segreto.
Che
fai
stasera?
Mah,
sto a
casa...
c’ho
le
mie
cose...
Ah,
capisco,
salutamele.
Ma
poi
le
MIE
cose.
Col
possessivo.
Proprietà
privata.
Ma
tientele
pure
strette.
E chi
te le
tocca.
E poi
certo
che
c’hai
le
tue.
Puoi
mica
avere
le
sue.
Non
puoi
mica
dire:
Eh,
oggi
non
sto
tanto
bene,
c’ho
le
sue
cose.
Che
orrore.
Che
imbarazzo.
|
CITTÀ
Città
come
Napoli,
Milano,
Messina,
Torino,
Bergamo,
Catania,
Urbino,
Arezzo,
Taranto
sono
maschili
o
femminili?
Nel
passato
i
nomi
di
città
che
avevano
la
desinenza
in -o
erano
considerati
maschili;
oggi,
invece,
tutti
i
nomi
di
città
vengono
considerati
femminili.
Quindi
si
dice:
la
bella
Torino,
la
mia
Milano,
la
Palermo
antica,
sottintendendo
sempre
il
nome
città.
É
vero
che
uno
scrittore
famoso,
Paolo
Volponi,
ha
considerato
maschile
la
sua
città,
e ha
scritto
in un
romanzo:
«Urbino
[...]
stretto
e
marrone,
a
punta
e
scontroso»,
ma
agli
scrittori,
si
sa,
tutto
è
consentito.
FRUTTI
I
nomi
dei
frutti
sono
quasi
sempre
femminili:
la
banana,
la
pesca,
la
noce,
la
mela,
l’arancia;
al
frutto
femminile
corrisponde
un
nome
d’albero
maschile:
il
banano,
il
pesco,
il
noce,
il
melo,
l’arancio.
Nei
casi
seguenti
sia
il
nome
del
frutto
sia
il
nome
dell’albero
sono
maschili:
il
cedro,
il
fico,
il
lampone,
il
limone,
il
bergamotto,
il
chinotto,
il
mandarancio,
il
mandarino,
il
pompelmo.
I
nomi
dei
frutti
esotici
sono
quasi
sempre
maschili:
l’ananas,
l’avocado,
il
cachi,
il
kiwi,
il
mango,
il
litchi,
il
maracuja.
Un’ultima
osservazione.
Il
plurale
di
frutto
è
frutti
o
frutta?
I
frutti
indicano
i
prodotti
delle
piante:
«i
frutti
dell’olivo»;
oppure,
in
senso
figurato,
il
risultato
o il
vantaggio
che
si
ricava
da
qualcosa:
«i
frutti
di
una
buona
educazione».
La (o
le)
frutta
(con
valore
collettivo)
indica
i
frutti
che
si
comprano
e si
mettono
a
tavola:
«un
bel
cesto
di
frutta»;
«mettere
la
frutta
in
tavola»;
«frutta
fresca
e
frutta
secca».
Questa
varietà
di
forme
si
spiega,
ancora
una
volta,
con
la
storia
della
parola.
Dal
latino
fructus,
maschile,
in
italiano
si è
avuto
frutto,
anch’esso
maschile,
che
al
plurale
ha
dato
regolarmente
i
frutti.
Nel
latino
tardo,
accanto
a
fructus
si è
sviluppata
un’altra
forma
usata
solo
al
plurale,
fructa,
da
cui
si è
avuto,
in
italiano,
frutta,
usato
sia
al
singolare
(la
frutta)
sia
al
plurale
(le
frutta).
QUANDO
IL
NOME
E’
DONNA
«Le
parole
sono
femmine,
i
fatti
sono
maschi»,
diceva
un
antico
proverbio.
Ai
proverbi,
si
sa,
tutto
è
consentito.
A chi
voglia
usare
una
lingua
italiana
rispettosa
non
solo
nei
confronti
delle
regole,
ma
anche
nei
confronti
delle
donne,
non
tutto
è
consentito.
Cominciamo
dalla
questione
più
spinosa
e
fonte,
ancora
oggi,
di
polemiche:
la
questione
dei
nomi
di
professioni
e
cariche
al
femminile.
I
nomi
che
indicano
professioni
o
cariche
pubbliche
fino
a una
certa
epoca
non
prevedevano,
per
ovvi
motivi,
una
forma
femminile.
Per
vedere
che
cosa
è
cambiato,
apriamo
il
«Corriere
della
Sera»
del
23
settembre
2010
e
leggiamo
che
cosa
ha
scritto
Beppe
Severgnini:
«L’avrete
saputo:
a
Milano
ci
sono
20
mila
avvocati,
la
metà
di
tutta
la
Francia.
In
Italia
sono
230
mila,
e
aumentano
ogni
anno
di 15
mila.
Magari
avete
visto
anche
la
lettera
al
Corriere
di
una
giovane
avvocata
(anonima
e
pentita):
a 27
anni
prende
500
euro
al
mese,
e
ammette
di
essere
fortunata.
Almeno
la
pagano,
e non
la
piazzano
a
fare
fotocopie
&
caffè,
come
tanti
colleghi
coetanei».
Avete
letto
bene:
avvocata.
Se lo
scrive
Severgnini,
potete
fidarvi.
Ma se
qualcosa
non
vi
convince,
e vi
sembra
che
la
parola
«non
suoni
bene»,
o
addirittura
«sia
brutta»,
aggiungeremo
che,
da un
punto
di
vista
grammaticale,
la
forma
avvocata
è del
tutto
legittima.
La
parola
era
usata
fin
dal
Medioevo
nel
latino
della
Chiesa:
la
Madonna
era
definita
advocata
nostra
nella
preghiera
Salve
Regina,
e da
qui è
entrata
nell’uso
come
attributo
non
solo
di
Maria,
ma di
molte
sante.
Non
siete
ancora
convinti?
Aprite
un
buon
vocabolario
della
lingua
italiana,
e
cercate
la
parola
avvocato:
scoprirete
che,
se si
riferisce
a una
donna,
la
forma
avvocata
è del
tutto
corretta. |
ROMA
- E’
iniziata
la
messa
di
Pasqua
celebrata
dal
Papa
in
piazza
San
Pietro,
dove
si
sono
radunati
circa
100
mila
fedeli.
I
pellegrini
sono
arrivati
già
dalle
prime
ore
del
mattino
per
partecipare
alla
celebrazione
e per
ricevere,
alla
fine,
la
benedizione
papale
“Urbi
et
Orbi”,
cioé
“alla
città
e al
mondo”.
Come
è
tradizione
dal
1985,
la
piazza
più
nota
della
cristianità
è
adornata
dagli
addobbi
dei
fioristi
olandesi:
oltre
42
mila
fiori
e
piante
tra
lilium,
rose,
aster
e
rami
di
ciliegio
giapponese.
Il
Papa
andrà
in
Libano
dal
14 al
16
settembre.
Lo
rende
noto
un
comunicato
diffuso
dalla
sala
stampa
vaticana
che
ufficializza,
nel
giorno
di
Pasqua,
le
date.
Durante
il
viaggio
apostolico,
il
Papa
“firmerà
l’Esortazione
apostolica
diretta
alla
Chiesa
del
Medio
Oriente,
incontrerà
le
più
alte
autorità
del
Paese,
civili
e
religiose,
e
presiederà
un
riunione
dedicata
alla
giovani
del
Libano”.
Benedetto
XVI
celebrerà
una
messa
a
Beirut.
Appello
del
Papa
per
“le
comunità
cristiane”
in
Africa
nel
messaggio
Urbi
et
Orbi.
Benedetto
XVI
ha
citato
Corno
d’Africa,
Sudan
e poi
il
Mali,
perché
trovi
“pace
e
stabilità”.
E la
Nigeria,
perché
ricostruisca
pace
e
libertà
religiosa.
Oggi
nel
Paese
una
bomba
é
esplosa
vicino
a una
chiesa
facendo
molte
vittime.
In
Medio
Oriente
“tutte
le
componenti
etniche,
culturali
e
religiose
collaborino
per
il
bene
comune
e il
rispetto
dei
diritti
umani”.
E in
Siria
“cessi
lo
spargimento
di
sangue
e si
intraprenda
la
via
del
dialogo”.
Così
il
Papa
nel
messaggio
Urti
et
Orbi,
con
l”invito
ad
accogliere
“i
numerosi
profughi”.
“Cristo
Risorto
-
sono
state
le
parole
di
Benedetto
XVI -
doni
speranza
al
Medio
Oriente,
affinché
tutte
le
componenti
etniche,
culturali
e
religiose
di
quella
Regione
collaborino
per
il
bene
comune
ed il
rispetto
dei
diritti
umani.
In
Siria,
in
particolare,
cessi
lo
spargimento
di
sangue
e si
intraprenda
senza
indugio
la
via
del
rispetto,
del
dialogo
e
della
riconciliazione,
come
è
auspicato
pure
dalla
comunità
internazionale.
I
numerosi
profughi,
provenienti
da
quel
Paese
e
bisognosi
di
assistenza
umanitaria,
trovino
l’accoglienza
e la
solidarietà
che
possano
alleviare
le
loro
penose
sofferenze”.
Benedetto
XVI
ha
ricordato
anche
il
“popolo
iracheno”,
incoraggiandolo
a
“non
risparmiare
alcuno
sforzo
per
avanzare
nel
cammino
della
stabilità
e
dello
sviluppo”. |
Dall’acquario
di
casa
al
portabagagli
dell’auto,
all’acquario
di
Cattolica.
E’ il
percorso
di
due
cucciole
di
caimano
arrivate
da
Monaco
e
subito
ribattezzate
dallo
staff
Frieda
e
Karin.
Sono
due
femmine
di
circa
2
anni,
la
cui
esistenza
- si
legge
in
una
nota
- è
segnata
da
travagliati
spostamenti,
che
le ha
viste
passare
dall’acquario
di
casa,
al
vivere
per
settimane
nel
portabagagli
dell’utilitaria
del
loro
proprietario,
suo
malgrado
obbligato
a
separarsene
a
causa
della
perdita
del
lavoro
e
anche
dell’
abitazione.
Ospitate
per
alcuni
mesi
presso
il
Centro
di
Recupero
Rettili
di
Monaco
- una
struttura
che
accoglie
animali
selvatici
abbandonati
e in
difficoltà
- da
poche
settimane
sono
giunte
a
Cattolica
affidate
temporaneamente
all’Acquario.
Misurano
circa
50
cm.
Il
loro
peso
raggiunge
i 10
kg,
la
loro
livrea
e
differente,
una
di
loro
Karin
è più
chiara
mentre
Frieda
è un
po’
più
scura
e
maculata.
Sono
molto
curiose
e
attive,
da
subito
hanno
iniziato
a
perlustrare
tutta
l’area
fluviale
della
vasca,
a
differenza
dell’
adulto
-
Blu,
una
femmina
adulta
di
oltre
40
anni
proveniente
dall’Acquario
di
Genova
- che
resta
immobile
per
ore,
loro
due
sono
in
continuo
movimento.
Abitano
nel
nuovo
percorso
giallo
dedicato
ai
corsi
d’acqua,
un’
area
amazzonica
molto
importante
e ben
strutturata
adatta
a
ospitare
più
esemplari,
inaugurata
lo
scorso
anno.
Un
ambiente
fluviale
di
oltre
50.000
litri
di
acqua
dolce,
ricco
di
vegetazione
e
diverse
specie
tipiche
del
Rio
delle
Amazzoni
come
grandi
pirhana
erbivori,
squali
d’acqua
dolce
e
miriadi
di
pesci
accetta
e di
pesci
neon. |
Notte.
Notte
incantata.
Notte
dolorosa.
Notte
folle,
magica
e
pazza.
E poi
ancora
notte.
Notte
che
sembra
non
passare
mai.
Notte
che
invece
a
volte
passa
troppo
in
fretta.
Queste
sono
le
mie
amiche,
cavoli...
Forti.
Sono
forti.
Forti
come
Onde.
Che
non
si
fermano.
Il
problema
sarà
quando
una
di
noi
s’innamorerà
sul
serio
di un
uomo.
“Ehi,
aspettate
ci
sono
anch’io!”
Niki
le
guarda,
una
dopo
l’altra.
Sono
a via
dei
Giuochi
Istmici.
Hanno
la
miniauto
con
gli
sportelli
aperti
e,
con
la
musica
a
palla,
improvvisano
una
sfilata
di
moda.
“E
dai,
vieni
allora!”
Olly
cammina
come
una
pazza
su e
giù
per
la
strada.
Volume
al
massimo
e
occhiali
a
fascia.
Sembra
Paris
Hilton.
Un
cane
abbaia
a
distanza.
Arriva
Erica,
grande
organizzatrice.
Prende
quattro
bottiglie
di
Corona.
Appoggia
i
tappi
sul
bordo
di
una
ringhiera
e,
dando
dei
cazzotti,
li fa
saltare
via
uno
dopo
l’altro.
Tira
fuori
un
limone
dallo
zainetto
e lo
taglia.
“Ehi,
Erica,
ma
quel
coltello,
se ti
beccano,
è
meno
di
quattro
dita?”
Niki
ride
e
l’aiuta.
Prende
e
infila
un
pezzetto
di
limone
all’interno
di
ogni
Corona
e,
pum!,
brindano
sbattendole
forte
e le
alzano
alle
stelle.
Poi
si
sorridono
quasi
chiudendo
gli
occhi,
sognando.
Niki
finisce
di
bere
per
prima.
Un
fiato
lungo
e si
riprende.
Forti
le
mie
amiche,
e si
asciuga
la
bocca.
È
bello
poter
contare
su di
loro.
Lecca
con
la
lingua
quell’ultima
goccia
di
Corona.
“Ragazze,
siete
bellissime...
Sapete
che
c’è?
Mi
manca
l’amore.”
“Ti
manca
una
scopata,
vorrai
dire.”
“Quanto
sei
bora”
dice
Diletta,
“ha
detto
che
le
manca
l’amore.”
“Sì,
l’amore”
riprende
Niki,
“quello
splendido
mistero
a te
sconosciuto...”
Olly
alza
le
spalle.
Sì,
pensa
Niki.
Mi
manca
l’amore.
Ma ho
diciassette
anni,
diciotto
a
maggio.
C’è
ancora
tempo
per
me...
“Aspettate,
aspettate,
ora
sfilo
io,
eh...”
E
procede
spedita
su
quello
strano
marciapiede-passerella
Niki,
tra
le
sue
amiche
che
fischiano
e
ridono
e si
divertono
per
quella
strana,
splendida,
pantera
bianca
che,
almeno
per
adesso,
non
ha
ancora
picchiato
nessuno.
”Amore,
amore
ci
sei?
Scusami
se
non
ti ho
avvisato,
ma
non
ce la
facevo
a
tornare
domani.”
Alessandro
entra
nella
sua
casa
e si
guarda
in
giro.
È
tornato
apposta
con
la
voglia
di
lei
ma
anche
con
la
voglia
di
scoprirla
con
qualcuno.
È
troppo
tempo
che
non
fanno
l’amore.
E
quando
non
c’è
sesso
a
volte
vuoi
dire
solo
che
c’è
un
altro.
Alessandro
gira
per
casa
ma
non
trova
nessuno,
anzi
non
trova
proprio
più
niente.
Oddio,
ma
che,
sono
venuti
i
ladri?
Poi
un
biglietto
sul
tavolo.
La
sua
scrittura.
|
|
Patria
che
raccogliesti
il
tuo
destino
sui
lembi,
là,
del
continente
nero,
nuove
strade
cercando
al
tuo
cammino,
se
qui
m’indugio
dietro
il
mio
pensiero,
affinando
la
vita
in
tenui
carmi,
ch’io
non
ti
sembri
immemore
o
straniero.
Odo
la
voce
tua,
sento
passarmi
tepidi
in
fronte
i
venti
sconosciuti,
scorgo
i
tuoi
figli
vigili
nell’armi.
Oh,
che
l’anima
mia
li
risaluti!
Artigiani
pur
ieri
e
falciatori
e
pastori
su
l’alpe
io li
ho
veduti.
Patria,
laggiù,
dove
tu
pugni
e
muori
e
rinasci
vincendo,
esser
vorrei
il
camerata
che
serena
i
cuori;
ed
inerme
tra i
ferri
onde
tu
sei
cinta
e
protetta,
una
dolcezza
buona
pei
fratelli
cavar
dai
sogni
miei.
Come
una
blanda
melodia
che
suona
a
tutti
eguale,
ma
ciascun
v’intende
il
dolore
o
l’amor
che
l’appassiona,
per
ogni
madre
che
lontana
attende
e pel
ricordo
delle
meste
amanti,
correrebbe
ai
bivacchi
e fra
le
tende
questo
lento
rigagnolo
di
canti.
Alessandro
MANZONI
- I
Promessi
sposi
Quel
ramo
del
lago
di
Como,
che
volge
a
mezzogiorno,
tra
due
catene
non
interrotte
di
monti,
tutto
a
seni
e a
golfi,
a
seconda
dello
sporgere
e del
rientrare
di
quelli,
vien,
quasi
a un
tratto,
a
ristringersi,
e a
prender
corso
e
figura
di
fiume,
tra
un
promontorio
a
destra,
e
un’ampia
costiera
dall’altra
parte;
e il
ponte,
che
ivi
congiunge
le
due
rive,
par
che
renda
ancor
più
sensibile
all’occhio
questa
trasformazione,
e
segni
il
punto
in
cui
il
lago
cessa,
e
l’Adda
rincomincia,
per
ripigliar
poi
nome
di
lago
dove
le
rive,
allontanandosi
di
nuovo,
lascian
l’acqua
distendersi
e
rallentarsi
in
nuovi
golfi
e in
nuovi
seni.
La
costiera,
formata
dal
deposito
di
tre
grossi
torrenti,
scende
appoggiata
a due
monti
contigui,
l’uno
detto
di
san Martino,
l’altro,
con
voce
lombarda,
il Resegone,
dai
molti
suoi
cocuzzoli
in
fila,
che
in
vero
lo
fanno
somigliare
a una
sega:
talchè
non è
chi,
al
primo
vederlo,
purchè
sia
di
fronte,
come
per
esempio
di su
le
mura
di
Milano
che
guardano
a
settentrione,
non
lo
discerna
tosto,
a un
tal
contrassegno,
in
quella
lunga
e
vasta
giogaia,
dagli
altri
monti
di
nome
più
oscuro
e di
forma
più
comune.
Per
un
buon
pezzo,
la
costa
sale
con
un
pendìo
lento
e
continuo;
poi
si
rompe
in
poggi
e in
valloncelli,
in
erte
e in
ispianate,
secondo
l’ossatura
de’
due
monti,
e il
lavoro
dell’acque.
Stefano
BENNI
- Di
Tutte
le
ricchezze
Ma
veniamo
al
fatto
nuovo
di
questo
pomeriggio.
Di
fronte
alla
mia
casa,
a un
tiro
di
schioppo
sotto
due
enormi
secolari
olmi,
c’è
un
casolare
disabitato
da un
anno,
da
quando
il
proprietario,
un
barbuto
e
intrattabile
pittore
tedesco,
lo
lasciò
per
andare
a
morire
in
qualche
remota
India.
È
quasi
identico
al
mio,
solo
che è
dipinto
di un
azzurro
slavato,
e
ovviamente
l’erba
che
lo
circonda
è
alta.
Stamattina
è
arrivato
un
grosso
fuoristrada
nero,
uno
di
quei
mostri
con
cui
gli
Esploratori
do
Ingorghi
intasano
inutilmente
il
traffico.
Le
ruote
poderose
hanno
disperso
nuvole
di
foglie
gialle,
il
rumore
ha
fatto
volare
via
merli
e
cornacchie.
Sono
scese
tre
persone.
Una è
proprietario
della
casa,
un
mercante
come
quello
della
leggenda,
un
omaccio
dal
volto
suino
e dai
modi
barbari.
Concitatamente
gesticolava,
certo
narrando
le
delizie
della
sua
proprietà,
a una
coppia.
Un
Lui
vestito
di un
giaccone
di
pelle,
apparentemente
sui
quarant’anni,
capelli
lunghi
e un
ciuffo
nero
sulla
fronte.
Una
Lei
con
lunghissima
chioma
bionda,
snella,
da
lontano
bellissima.
Da
lontano
bellissima.
Cosa
si
annida
in
queste
tre
parole?
Avrò
dei
vicini?
Saranno
solitari
come
me,
ci
saluteremo
appena
o
incendieranno
la
mia
quiete?
Ombra
è già
andato
a
conoscerli
dimenando
la
grossa
coda,
con
cui
gaiamente
ribalta
gli
oggetti
di
casa.
Lei
lo ha
subito
accarezzato.
”Sulle
sponde
della
Garonna,
nella
provincia
di
Guienna,
esisteva
nell’anno
1584
il
castello
di
Sant’Aubert:
dalle
sue
finestre
scoprivansi
i
ricchi
e
fertili
paesi
della
Guienna,
che
si
estendevano
lungo
il
fiume,
coronati
da
boschi,
vigne
ed
oliveti.
A
mezzodì,
la
prospettiva
era
circoscritta
dalla
massa
imponente
dei
Pirenei,
le
cui
cime,
or
celate
nelle
nubi,
ora
lasciando
scorgere
bizzarre
forme,
si
mostravano
talvolta,
nude
e
selvagge,
in
mezzo
ai
vapori
turchinicci
dell’orizzonte,
e
talora
scoprivano
le
loro
pendici,
lungo
le
quali
dondolavano
grandi
abeti
neri,
agitati
dai
venti.
Spaventosi
precipizi
contrastavano
colla
ridente
verzura
de’
prati
e
delle
selve
circostanti,
e lo
sguardo
affaticato
dall’aspetto
di
quelle
voragini,
si
riposava
alla
vista
degli
armenti
e
delle
capanne
dei
pastori.
Le
pianure
della
Linguadoca
si
estendevano
a
tiro
di
occhio
a
tramontana
ed a
levante,
e
l’orizzonte
confondevasi
a
ponente
colle
acque
del
golfo
di
Guascogna. |
Sant’Aubert,
accompagnato
dalla
sposa
e
dalla
figlia,
andava
spesso
a
passeggiare
sulle
sponde
della
Garonna;
egli
si
compiaceva
di
ascoltare
il
mormorio
armonioso
delle
sue
acque.
Aveva
altre
volte
conosciuto
un
altro
genere
di
vivere
ben
diverso
da
questa
vita
semplice
e
campestre;
aveva
a
lungo
vissuto
nel
vortice
del
gran
mondo,
ed il
quadro
lusinghiero
della
specie
umana,
formatosi
dal
suo
giovine
cuore,
aveva
subìto
le
tristi
alterazioni
dell’esperienza.
Nondimeno,
la
perdita
delle
sue
illusioni
non
aveva
nè
scosso
i
suoi
principii,
nè
raffreddata
la
sua
benevolenza:
aveva
abbandonata
la
società
piuttosto
con
pietà
che
con
collera,
e si
era
limitato
per
sempre
al
dolce
godimento
della
natura,
ai
piaceri
innocenti
dello
studio,
ed in
fine
all’esercizio
delle
domestiche
virtù.
Discendeva
da un
cadetto
d’illustre
famiglia;
ed i
suoi
genitori
avrebbero
desiderato
che,
per
riparare
alle
ingiurie
della
fortuna,
egli
avesse
ricorso
a
qualche
ricco
partito,
o
tentato
d’innalzarsi
colle
mene
dell’intrigo.
Per
questo
ultimo
progetto,
Sant’Aubert
aveva
troppo
onore
e
troppa
delicatezza;
e,
quanto
al
primo,
non
aveva
bastante
ambizione
per
sacrificare
all’acquisto
delle
ricchezze
ciò
ch’esso
chiamava
felicità.
Dopo
la
morte
del
padre
sposò
una
fanciulla
amabile,
eguale
a lui
per
nascita,
non
meno
che
pei
beni
di
fortuna.
Il
lusso
e la
generosità
di
suo
padre
avevano
talmente
oberato
il
patrimonio
ricevuto
in
retaggio,
che
fu
costretto
di
alienarne
porzione.
Qualche
anno
dopo
il
suo
matrimonio,
lo
vendè
a
Quesnel,
fratello
di
sua
moglie,
e si
ritirò
in
una
piccola
terra
di
Guascogna,
dove
la
felicità
coniugale
ed i
doveri
paterni
dividevano
il
suo
tempo
colle
delizie
dello
studio
e
della
meditazione...”
Alessandro
Baricco
-
Novecento
Succedeva
sempre
che a
un
certo
punto
uno
alzava
la
testa...
e la
vedeva.
È una
cosa
difficile
da
capire.
Voglio
dire...
Ci
stavamo
in
più
di
mille,
su
quella
nave,
tra
ricconi
in
viaggio,
e
emigranti,
e
gente
strana,
e
noi...
Eppure
c’era
sempre
uno,
uno
solo,
uno
che
per
primo...
la
vedeva.
Magari
era
lì
che
stava
mangiando,
o
passeggiando,
semplicemente,
sul
ponte...magari
era
lì
che
si
stava
aggiustando
i
pantaloni...
alzava
la
testa
un
attimo,
buttava
un
occhio
verso
il
mare...
e la
vedeva.
Allora
si
inchiodava,
lì
dov’era,
gli
partiva
il
cuore
a
mille,
e,
sempre,
tutte
le
maledette
volte,
giuro,
sempre,
si
girava
verso
di
noi,
verso
la
nave,
verso
tutti,
e
gridava
(
piano
e
lentamente):
l’America.
Poi
rimaneva
lì,
immobile
come
se
avesse
dovuto
entrare
in
una
fotografia,
con
la
faccia
di
uno
che
l’aveva
fatta
lui,
l’America.
La
sera,
dopo
il
lavoro,
e le
domeniche,
si
era
fatto
aiutare
dal
cognato,
muratore,
brava
persona...
prima
aveva in
mente
qualcosa
in
compensato,
poi...
gli
ha
preso
un
po’
la
mano,
ha
fatto
l’America...
Quello
che
per
primo
vede
l’America.
Su
ogni
nave
ce
n’è
uno.
E non
bisogna
pensare
che
siano
cose
che
succedono
per
caso,
no...
e
nemmeno
per
una
questione
di
diottrie,
è il
destino,
quello.
Quella
è
gente
che
da
sempre
c’aveva
già
quell’istante
stampato
nella
vita.
E
quando
erano
bambini,
tu
potevi
guardarli
negli
occhi,
e se
guardavi
bene,
già
la
vedevi,
l’America,
già
lì
pronta
a
scattare,
a
scivolare
giù
oer
nervi
e
sangue
e che
ne so
io,
fino
al
cervello
e da
lì
alla
lingua,
fin
dentro
quel
grido
(gridando),
AMERICA,
c’era
già,
in
quegli
occhi,
di
bambino,
tutta,
l’America.
Lì,
ad
aspettare.
Questo
me
l’ha
insegnato
Danny
Boodmann
T.D.Lemon
Novecento,
il
più
grande
pianista
che
abbia
mai
suanato
sull’Oceano.
Negli
occhi
della
gente
si
vede
quello
che
vedranno,
non
quello
che
hanno
visto.
Così,
diceva:
quello
he
vedranno.
Elvira
SANTILLI
-
Oltre
la
valle
Capracotta
è un
paese
situato
a
1421
m sul
livello
del
mare
ed è
il
più
alto
comune
dell’Italia
appenninica.
Poiché
sono
sicura
che
anche
l’eventuale
lettore
di
questo
libro
avrà,
come
tanti
altri,
la
curiosità
di
sapere
l’origine
del
nome,
dirò
che
la
leggenda
popolare
narra
che
alcuni
zingari,
avendo
deciso
di
fondare
una
cittadina,
per
compiere
un
rito
in
uso
presso
di
loro,
bruciarono
una
capra,
che
riuscì
a
fuggire
dal
rogo
e si
rifugiò
sui
monti,
ove
stremata
di
forze,
esalò
l’ultimo
respiro.
Gli
zingari
costruirono
dove
essa
si
era
fermata
la
chiesa
parrocchiale
intorno
a cui
sorse
il
paese.
Dicono
anche
che
il
nome
derivi
latino
“castra
cocta”,
ossia
accampamento
protetto
da un
“agger
coctus”,
il
quale
era
un
muro
di
cinta
fatto
di
mattoni.
Non è
da
escludere,
infatti,
che
un
distaccamento
romano
stesse
di
stanza
in
quelle
alture
per
utilizzare
le
possibilità
strategiche
della
località
che
domina
la
vallata
del
Sangro.
Non
mancano
tesi
che
fanno
risalire
il
significato
dello
stemma
comunale,
raffigurante
una
capra
che
fugge
da
una
pira,
alla
prova
del
fuoco
in
uso
presso
i
Longobardi,
che
avrebbero
fondato
la
cittadina.
C’è
anche
chi
pensa
che
in
quel
posto
vi
fosse
una
trattoria
ove
si
servisse
della
carne
di
capra,
ma
sembra
più
convincente
lo
studio
fatto
da
Ugo
Mosca,
quel
mio
parente
che
si è
occupato
dei
Mosca,
il
quale
ha
depositato
nella
Biblioteca
provinciale
di
Campobasso
due
dattiloscritti
sui
toponimi
molisani
e
sull’origine
del
nome
di
Roma.
Nello
scalo
di S.
Pietro
Avellana
c’è
sempre
stata
una
scuola,
ora
statale,
ora
sussidiata,
a
seconda
del
numero
degli
alunni
che
la
piccola
borgata
poteva
offrire.
Si
trattava
di
una
pluriclasse
comprendente
i
prima
quattro
anni
di
scuola
elementare,
che
talvolta
si
completava
con
una
quinta.
I
maestri
venivano
da
lontano
e non
era
raro
il
caso
che
qualcuno
rimanesse
invischiato
nella
pania
aorosa
con
cui,
a
detta
di
alcune
signorine,
mia
madre
affatturava
i
giovanotti
per
maritare
le
numerose
figlie.
Fu
così
che
Angiolino
si
innamorò
della
mia
prima
sorella.
Questa,
quando
giunse
a S.
Pietro
il
nuovo
insegnante,
era a
Campobasso
ove
frequentava
un
corso
di
taglio.
Mia
madre
approfittò
del
giovane,
che
si
recava
a
visitare
i
suoi
nei
pressi
del
capoluogo
molisano,
per
mandare
una
lettera
alla
figlia.
Il
maestro
salì
le
scale
della
casa
indicata
dall’indirizzo
e,
con
aria
contegnosa,
si
tolse
il
cappello
prima
di
bussare
alla
porta.
Gli
andò
ad
aprire
una
signorina
snella,
bruna,
dal
portamento
svelto
e
nervoso. |
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