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 Сборник итальянской прозы (отрывки)

Содержание: 

  1. Stefano Benni - LETTERA AL TRAP DAL CT AD INTERIM... PAGEREF _Toc447461307 \h 3

  2. GIORGIO FALETTI - IO UCCIDO.. PAGEREF _Toc447461308 \h 3

  3. Kit REED - INVERNO.. PAGEREF _Toc447461309 \h 4

  4. Stefano BENNI - LETTERA AL TRAP DAL CT AD INTERIM... PAGEREF _Toc447461310 \h 7

  5. Stefano BENNI - LETTERA AL PADRETERNO.. PAGEREF _Toc447461311 \h 8

  6. Stefano BENNI - TI PIACE IL PRESEPE?. PAGEREF _Toc447461312 \h 9

  7. GRAZIA VERASANI, L’AMORE E’ UN BAR SEMPRE APERTO.. PAGEREF _Toc447461313 \h 10

  8. Stefano BENNI - L’ANNO DEL TEMPO MATTO.. PAGEREF _Toc447461314 \h 11

  9. Stefano BENNI - IL DITTATORE E IL BIANCO VISITATORE.. PAGEREF _Toc447461315 \h 12

  10. Barzellette.. PAGEREF _Toc447461316 \h 13

  11. Marco Bettini - Color sangue.. PAGEREF _Toc447461317 \h 13

  12. Antonio Tabucchi - Sogno di Cecco Angiolieri. PAGEREF _Toc447461318 \h 14

  13. Antonio Tabucchi - Sogno di Francisco Goya y Lucientes.. PAGEREF _Toc447461319 \h 16

  14. Antonio Tabucchi - Sogno di Lucio Apuleio.. PAGEREF _Toc447461320 \h 17

  15. Antonio Tabucchi - Sogno di Giacomo Leopardi. PAGEREF _Toc447461321 \h 19

  16. Antonio Tabucchi - Sogno di Achille Claude Debussy.. PAGEREF _Toc447461322 \h 20

  17. Antonio Tabucchi - Sogno di Henri de Toulouse-Lautrec.. PAGEREF _Toc447461323 \h 21

  18. Antonio Tabucchi - Sogno di Fernando Pessoa.. PAGEREF _Toc447461324 \h 22

  19. Antonio Tabucchi - Si sta facendo sempre piu’ tardi. PAGEREF _Toc447461325 \h 23

  20. Luciana Littizzetto - Il rotolo finito della carta igienica.. PAGEREF _Toc447461326 \h 24

  21. Luciana Lettizzetto - L’indice di virilita‘ PAGEREF _Toc447461327 \h 25

  22. Luciana Lettizzetto - Gli animali e le bestie.. PAGEREF _Toc447461328 \h 26

  23. Luciana Lettizzetto - Le loro cose.. PAGEREF _Toc447461329 \h 26

  24. Il genere dei nomi PAGEREF _Toc447461330 \h 27

  25. Pasqua, 100mila a San Pietro.. PAGEREF _Toc447461331 \h 28

  26. Due nuovi caimani all’acquario di Cattolica.. PAGEREF _Toc447461332 \h 29

  27. Federico Moccia - Scusa ma ti chiamo amore.. PAGEREF _Toc447461333 \h 29

  28. Giovanni BERTACCHI - A Fior di Silenzio.. PAGEREF _Toc447461334 \h 30

  29. Alessandro MANZONI - I Promessi sposi. PAGEREF _Toc447461335 \h 31

  30. Stefano BENNI - Di Tutte le ricchezze.. PAGEREF _Toc447461336 \h 31

  31. Alessandro Baricco - Novecento.. PAGEREF _Toc447461337 \h 32

  32. Elvira SANTILLI - Oltre la valle.. PAGEREF _Toc447461338 \h 33 

Stefano Benni - LETTERA AL TRAP DAL CT AD INTERIM


Cari cittadini, come sempre devo lamentarmi. Sono uno statista di statura mondiale e nessuno vuole riconoscerlo. Ho fatto terminare la guerra in Medio Oriente e né gli israeliani né i palestinesi se ne sono accorti. Ho posto fine a secoli e secoli di guerra fredda, e ho convinto Putin a entrare nella Nato, anche se per il momento non sono ancora riuscito a iscriverlo alla Pidue. Ho sbattuto fuori dall’Italia i pericolosi invasori albanesi, senegalesi e rumeni e adesso ci proverò con l’etnia più pericolosa, i legulei. Ho abbassato le tasse e il debito pubblico in una fiction su Italia Uno. La mafia è sotto controllo e fattura tutto. Con D’Amato ormai c’è una tale intesa che non devo più gridare «comandi!» quando mi telefona. Eppure continuate a trattarmi come un tirannello da strapazzo e mi avete deluso nelle prime elezioni italiane in cui c’è stata una vera par condicio, ovverossia io ho avuto un pari numero di ore, circa due, su tutti i miei (pardon) su tutti i maggiori canali televisivi. Ma c’è un settore dove dimostrerò di essere un grande stratega, un’attività che mi ha sempre dato grandi soddisfazioni e da cui è partita la mia ascesa nell’olimpo dei grandi. Il calcio! Ecco la lettera che ho appena inviato al vice-commissario della nazionale azzurra, Giovanni Trapattoni.

 

GIORGIO FALETTI - IO UCCIDO


Nella luce soffusa, lei è sottile e dolce come la malinconia, ha i capelli neri e gli occhi sono verdi, talmente luminosi e grandi che li vede anche da lì. Lui ha occhi solo per la sua bellezza e le parla all’orecchio, per farsi sentire oltre il frastuono della musica. Si tengono per mano e lei ride alle parole del compagno, rove­sciando la testa all’indietro o nascondendo il viso nell’incavo del­la sua spalla. Poco fa lei si è voltata, forse punta in qualche modo dalla fis­sità dello sguardo dell’uomo appoggiato a una colonna, cercando l’origine di un lontano disagio. I loro occhi si sono incrociati ma quelli di lei sono passati indifferenti sulla sua faccia come sul resto del mondo che la circonda. È tornata a regalare il miracolo di que­gli occhi all’uomo che è con lei e che la ricambia con lo stesso sguardo, impermeabile a ogni messaggio esterno al di fuori della sua presenza. Sono giovani, belli, felici. L’uomo appoggiato a una colonna pensa che presto moriranno.

Jean-Loup Verdier premette il pulsante del telecomando e solo quando la saracinesca fu aperta a metà accese il motore, per non respirare i gas di scarico nello spazio ristretto del box. La luce dei fari lasciò lentamente la parete di metallo che si sollevava per an¬dare a bucare lo schermo nero dell’oscurità davanti a lui. Mise su drive la leva del cambio automatico e, quando l’apertura fu com¬pleta, premette l’acceleratore e guidò lentamente l’SLK all’ester¬no. Pigiò il tasto di chiusura puntando il telecomando con il brac¬cio alzato sulla testa, e mentre aspettava il clang della porta che si richiudeva rimase a guardare il panorama che si apriva davanti al cortile di casa sua. Montecarlo era un letto di cemento sul mare. Sotto i suoi occhi la città quasi non aveva forma, avvolta nella leggera fo¬schia di vapore che rifletteva le luci accese nella sera. Poco sot-to di lui, i campi illuminati del Country Club, già su territorio francese, dove probabilmente si stava allenando qualche star del tennis internazionale, di fianco al dito alzato di Parc Saint-Roman, uno dei grattacieli più alti della città. Più giù, verso Cap d’Ail, sotto la rocca della città vecchia, si indovinava il quartie¬re di Fontvieille, strappato all’acqua metro per metro, pezzo per pezzo. Accese contemporaneamente una sigaretta e la radio sintoniz¬zata su Radio Monte Carlo. Mentre avviava la macchina su per la rampa che portava alla strada, con il telecomando azionò l’aper¬tura del cancello. Svoltò a sinistra e scese lentamente verso la città godendo l’aria già calda di fine maggio.

 

Kit REED - INVERNO


Arrivò da noi alla fine dell’autunno. C’era un velo di ghiaccio sulle pozzanghere, e io sentivo nelle ossa l’inverno, freddo e terribile; la fame si stava già svegliando dentro di me, si sarebbe aggirata tranquilla fino all’inizio dell’anno, prima che arrivasse la primavera avrebbe cominciato a ruggire come una tigre, consumandomi fino al disgelo, quando Maude avrebbe potuto ricominciare ad andare a caccia, e avremmo potuto andare di nuovo in città con il furgone. Non ne potevo più di mettere roba sotto vetro, ma andai a prendere un po’ dei pomodori che avevamo appeso in cantina, e li misi 156 in vaso; Maude usciva e riportava ogni pezzo di carne a cui poteva sparare e tutto il grano, la farina, il latte in polvere che poteva caricare sul furgone; dovevamo immagazzinare tutto prima che arrivasse la neve e ci isolasse. La settimana che lui arrivò Maude aveva trovato una lepre stecchita sulla strada, congelata, con le zampe rigide rivolte verso l’alto, e tutta la carne che avevamo appeso nella dispensa si era congelata. Venerdì trovammo la brina sull’erba, e quando guardai fuori dalla finestra e vidi delle impronte sulla brina dissi, Maude, c’è qualcuno nella casetta dei giochi e allora uscimmo, e lo trovammo lì. Era addormentato in mezzo ai mucchi di vestiti con cui ci mascheravamo sempre, con la testa appoggiata all’abito di velluto che mia madre aveva indossato all’Esposizione, e i piedi sull’abito di raso con cui si era sposata; si era messo il boa di piume attorno al collo, e la pelliccia di volpe attorno ai fianchi.

Prima che arrivasse lui, Maude e io passavamo l’inverno parlando dei tempi andati, evocando il passato fra di noi e lo guardavamo e Maude finiva sempre per dare la colpa a me. Avrei potuto sposare Lister Hoffman o Harry Miad e andarmene per sempre da qui, se non fosse stato per te, Lizzie. Io le dicevo, Accidenti, non ho mai avuto bisogno di te. Non li hai sposati perché non li hai sposati, avevi paura e mi hai usato come scusa. Lei allora si arrabbiava. È una bugia. Va bene, come ti pare, le dicevo, per non litigare.

Sapevamo tutt’e due che io avrei sposato il primo uomo che me l’avesse chiesto, ma nessuno l’aveva mai fatto, neppure per tutti i miei soldi, a causa della malattia. Se nessuno l’avesse saputo, magari qualcuno mi avrebbe anche sposato, ma una volta andai nei campi con Miles Harrison, quando mio padre era ancora vivo, e Miles ed io quasi lo facemmo, solo che mi prese un attacco proprio lì di fronte a lui, e così non lo feci mai. Forse nessuno l’avrebbe mai saputo, ma Miles mi vide cadere a terra. Immagino che sia stato lui a mettermi qualcosa fra i denti, ma quando tornai in me se n’era andato. La prima volta che andai in città, tutti mi guardavano in maniera strana, qualcuno faceva anche uno sforzo per essere gentile, ma erano tutti nervosi, pensando se l’avrei fatto proprio lì di fronte a loro, se avrei sbavato molto, se gli avrei fatto male, e non appena potevano dicevano, Scusa ho da fare, o qualunque cosa per andarsene in fretta e furia. Quando incontrai Miles quel giorno non volle guardarmi, e da allora nessun uomo si è più avvicinato a me, in più di cinquant’anni, ma io e Miles quasi lo facemmo, e non ho mai smesso di pensarci.

Adesso mio padre se n’è andato e mia madre se n’è andata e anche Lister Hoffman e Miles Harrison e metà dei ragazzi che mi ridevano dietro se ne sono tutti andati, ma Maude continua a darmi la colpa, ci sediamo dopo cena e mi dice, Se non fosse stato per te adesso avrei dei nipotini e io le dico che ne avrei avuto ancora prima di lei, perché a lei gli uomini non le sono mai piaciuti, li sopportava solo per avere i bambini e anche questo era troppo complicato e le avrebbe fatto male. È una bugia, Lizzie, diceva lei. Harry e io tante volte… e io le dicevo, Non l’hai mai fatto ma Miles e io… Allora tutt’e due cominciavamo a pensare a esser giovani e ad avere i ragazzi che ti toccano ma i ricordi fanno diventare acida Maude e vuole sempre avere l’ultima parola. È colpa tua dice, ma dentro di me io so che la gente si fa la propria vita con le sue mani, e lei ha sempre voluto più di ogni altra cosa restare chiusa qui dentro senza nessuno che le chiedesse di fare qualcosa, voleva stare in questa casa con me, la sua rinsecchita sorella, fredda e sicura, e se le è venuta fame, le è venuta tardi.

Dopo un po’ cominciavamo ad inventarci delle storie: Una volta sono andata con un ragazzo fino a Portland… Una volta ho ballato per tutta la notte e per mezza mattina, e lui voleva baciarmi nella piega del braccio… Cercavamo di far passare l’inverno, ma anche così non era sufficiente e restavamo sempre con la fame, per quante scorte facessimo, la carne finiva sempre prima del disgelo e immagino che in realtà erano le nostre vite che giudicavamo, ma decidevamo che non c’era niente che ci piacesse nei barattoli, così restavamo sedute e sognavamo e avevamo fame e ci chiedevamo se saremmo morte per la fame, ma finalmente arrivava il disgelo e Maude mi guardava con un sorriso: Se solo avessimo un’altra occasione…

Ora forse ce l’avremo.

Lo trovammo nella casetta dei giochi, forse era il fatto di vederlo addormentato in mezzo ai vestiti di mia madre, o forse il fatto che fosse nella casa dei giochi, dove tante volte ci vestivamo, ma ecco che c’era questo ragazzo, o uomo, e qualcosa di lui che ci richiamò alla mente i ricordi migliori, c’era una promessa scritta su di lui. Sono troppo vecchia, sono tutta inaridita, ma non ho mai smesso di pensare a quella volta e vedendo lì quel ragazzo, potevo far finta che era Miles e che io ero ancora giovane. Dovette accorgersi di noi, perché si svegliò e si rannicchiò, forse aveva un coltello, poi si accorse che eravamo solo due grosse vecchie con stivali militari, disse, Scappo dai Marines, avevo bisogno di un posto per dormire.

Maude disse, Non mi importa di cosa hai bisogno, devi andartene da qui, ma quando lui si alzò barcollava. I capelli gli cadevano dalla testa come quelli di un ragazzo che conoscevo una volta e dissi, Maude, perché non dici di sì, una volta tanto.

Aveva addosso una camicia di cotone e pantaloni che non assomigliavano a nessuna uniforme che avessi mai visto e stava dicendo, Sono successe due cose, mi sono reso conto che avrei dovuto uccidere qualcuno in guerra e poi ho fatto un errore e mi hanno picchiato, così ho tagliato la corda. Sorrise e sembrava sincero. Io guardai dura Maude e finalmente Maude mi guardò e disse, Va bene, vieni in casa a mangiare qualcosa.

 

Dopo un po’ cominciavamo ad inventarci delle storie: Una volta sono andata con un ragazzo fino a Portland… Una volta ho ballato per tutta la notte e per mezza mattina, e lui voleva baciarmi nella piega del braccio… Cercavamo di far passare l’inverno, ma anche così non era sufficiente e restavamo sempre con la fame, per quante scorte facessimo, la carne finiva sempre prima del disgelo e immagino che in realtà erano le nostre vite che giudicavamo, ma decidevamo che non c’era niente che ci piacesse nei barattoli, così restavamo sedute e sognavamo e avevamo fame e ci chiedevamo se saremmo morte per la fame, ma finalmente arrivava il disgelo e Maude mi guardava con un sorriso: Se solo avessimo un’altra occasione…

Ora forse ce l’avremo.

Lo trovammo nella casetta dei giochi, forse era il fatto di vederlo addormentato in mezzo ai vestiti di mia madre, o forse il fatto che fosse nella casa dei giochi, dove tante volte ci vestivamo, ma ecco che c’era questo ragazzo, o uomo, e qualcosa di lui che ci richiamò alla mente i ricordi migliori, c’era una promessa scritta su di lui. Sono troppo vecchia, sono tutta inaridita, ma non ho mai smesso di pensare a quella volta e vedendo lì quel ragazzo, potevo far finta che era Miles e che io ero ancora giovane. Dovette accorgersi di noi, perché si svegliò e si rannicchiò, forse aveva un coltello, poi si accorse che eravamo solo due grosse vecchie con stivali militari, disse, Scappo dai Marines, avevo bisogno di un posto per dormire.

Maude disse, Non mi importa di cosa hai bisogno, devi andartene da qui, ma quando lui si alzò barcollava. I capelli gli cadevano dalla testa come quelli di un ragazzo che conoscevo una volta e dissi, Maude, perché non dici di sì, una volta tanto.

Aveva addosso una camicia di cotone e pantaloni che non assomigliavano a nessuna uniforme che avessi mai visto e stava dicendo, Sono successe due cose, mi sono reso conto che avrei dovuto uccidere qualcuno in guerra e poi ho fatto un errore e mi hanno picchiato, così ho tagliato la corda. Sorrise e sembrava sincero. Io guardai dura Maude e finalmente Maude mi guardò e disse, Va bene, vieni in casa a mangiare qualcosa.

 

Stefano BENNI - LETTERA AL TRAP DAL CT AD INTERIM


Caro Trap,

quando siete partiti per il Giappone, con la garbata ironia che mi contraddistingue, vi ho detto che se non vincevate vi avrei sbattuto in galera. Be’, non scherzavo. Ma ciò non accadrà perché vinceremo, e vinceremo perché da oggi sono io il commissario a interim della nazionale, tu non osi, esiti e hai le idee confuse. Se segui queste istruzioni e mandi in campo la mia formazione, il trionfo è assicurato.

Procediamo per esclusione. Sbatti fuori Tommasi che è comunista, che vada a giocare nella Dinamo Mosca, anzi adesso che siamo amici di Putin, che vada a giocare nella Dinamo Cuba. Via Coco che gioca in Spagna ed è in buoni rapporti coi giornalisti del Pais. Via Panucci, Totti, Del Vecchio e Montella che sono troppo amici di Veltroni. Via Juliano e Cannavaro che sono meridionali e Bossi non gradisce. Via Di Biagio, Di Livio e Del Piero, non mi piace il Di e Del davanti ai nomi, tutto quello che c’è in Italia deve chiamarsi Di Silvio e Del Silvio. Via Nesta e Materazzi, sono troppo alti e mi stanno sui coglioni. Via Buffon e Toldo, tre portieri sono troppi. Via Vieri e Zanetti che sono interisti e mi distraggono le veline. La squadra comprenderà solo giocatori del Milan o in procinto di essere acquistati dal Milan, oppure a me graditi. Ecco la formazione, imparala a memoria e scrivitela. In porta Abbiati. In difesa Maldini, e al suo fianco voglio rivedere Billy Costacurta. Sulla fascia destra convoca La Russa (ci tiene tanto) e sulla sinistra Pappalepore, è l’autista di D’Amato, non so come gioca, ma non possiamo dire no alla Confindustria. A centrocampo: Ambrosini, Doni e Donadoni (è un po’ ingrassato, ma se la cava). Le punte: Inzaghino bello e Lunardi. Tu mi dirai: ma non sa giocare. Se è per quello, non sa neanche fare il ministro. E lass ma non liss come dice Bush, chi sarà il centravanti? Un furetto brevilineo dai piedi buoni, un estroso furfantello delle aree, un presidente finanziere, operaio e anche goleador. Ebbene sì: avevo appeso le scarpette al chiodo, ma tornerò a difendere i colori del mio paese: giocherò con lo pseudonimo di Pataquinho. Non vedo l’ora! A proposito, quando inizierà la partita, entreremo democraticamente in campo tutti insieme, anche se io sarò su una portantina. Poi canteremo insieme l’inno di Mameli e Oh Susanna, a Bush fa piacere. Quindi inizierà la tenzone e caro Trap, non dubitare, spezzeremo le reni agli avversari. L’Equator è debole e poi ho visto sull’atlante che non è un paese,è una riga che gira tutto in tondo, che cazzo di giocatori può avere? Il Messico è povero e debole, sarà un piacere pestare quei figli di Chiapas.

In quanto alla Croazia ho chiesto lumi su come attaccare a D’Alema. Caro Trap, prepara la squadra e aspettami. Forse il calcio mi ridarà l’onorabilità che altri settori si ostinano a non negarmi. Sarò leale e onesto. A proposito, arriverò con sedici chili di nandrolone, epo, turbocaina, gonfiomix e nitrato di amile nascosti nella valigia diplomatica. Di’ ai ragazzi che ogni mattina ne dovranno prendere una bella cucchiaiata nella colazione. E niente scrupoli da anime belle, il calcio è come la finanza, se sei onesto ti fan fuori. In quanto alle critiche di ingerenza e protagonismo, be’, sono pronto a rintuzzarle. Non metto mai bocca nei settori che non sono di mia competenza. Ad esempio, quando c’è stata l’elezione del nuovo presidente Rai, io ho proposto una rosa di nomi: Baldassarre, Emanuela, Susy e Maria Selvaggia. Che colpa ne ho se hanno scelto un maschietto? Ciao e a presto,

Silvio Berlusconi

Fine

Stefano BENNI - LETTERA AL PADRETERNO


Dopo l’eliminazione della virginale Italia da parte dei corrotti coreani, il premier Silvio Berlusconi, garante dell’indignazione patria finalmente unita, coesa e bipolare, ha inviato le seguenti lettere che partecipi e furenti pubblichiamo.

 Lettera uno.

“Caro Trap, mi consenta di dirti che ci son rimasto proprio di merda.

Il mio regimuccio aveva un forsennato bisogno di trionfi sportivi, e tu ti fai sbattere fuori come un extracomunitario qualsiasi. Beffa e disdoro! Io, il re dei pataccari, eliminato da un guappo di mezza tacca come Blatter, uno che contrabbanda qualche soldo in Svizzera, con un conflittino d’interesse ridicolo, da amministratore condominiale. E io, che do dell’you a Bush e faccio tremare le magistrature europee, dopo aver superato avvisi di garanzia, cassazioni, rogatorie e toghe rosse, mi trovo fregato da tale Ciccio Biròn Moreno, un arbitro ecuadoriano che sembra Mastella alle elementari, e da una banda di segnalinee che tutti insieme non prendono il rimborso spese di un inviato Rai.

Sì, lo so, ho anch’io le mie responsabilità. Quando mi hai avvertito che bisognava comperare l’arbitro e che il segreto della Corea era il Ginseng, mi son dato da fare. Ho mandato subito Previti, il mio specialista in shopping di arbitrati. Ma avevamo sottovalutato la situazione. Previti aveva nella valigia un prosciutto e una decina di Rolex, quelli che distribuisco ai leader congobelgi e sudamerichi tutte le volte che facciamo quegli inutili incontri sulla fame del mondo dove mi annoio, non capisco niente e poi per reazione mangio come un micciché e ingrasso. Quando Previti è arrivato, gli hanno sequestrato il prosciutto e poi lo hanno portato da Ciccio Biròn. Be’, il maledetto ecuadoriano aveva il braccio su una carriola, per sostenere il gigantesco Rolex che portava al polso. Aveva anche le bretelle di Rolex annodati e un Rolex attorno al sigaro. Blatter aveva colpito prima di noi! Allora ho cercato di comperare questo Ginseng, ma nessuno dei miei collaboratori è riuscito a trovare un giocatore che si chiamasse così, si può sapere che cazzo di nomi hanno questi coreani?

È stato allora che ti ho suggerito l’operazione Dio è con noi. Col Messico è andata bene, ma hai commesso un errore. Non dovevi consumare subito tutta la damigiana di acqua benedetta, dovevi centellinarla, non annaffiare il campo e farci il caffè per la squadra. Purtroppo non siamo riusciti a procurarci una seconda damigiana. Era acqua benedetta di Santa Maria Novella e abbiamo già venduto la chiesa agli americani, che han riempito l’acquasantiera di sangrilla. E anche dopo hai continuato a non darmi retta. Ti avevo detto che i giocatori, oltre all’inno di Mameli, avrebbero dovuto cantare T’adoriam Ostia divina, ma milanisti e juventini si sono rifiutati dicendo che era una canzone filolaziale.

Nesta, Maldini e Zambrotta avrebbero dovuto portare il cilicio e frustarsi vicendevolmente, la puntina da disegno dentro la scarpa non era sufficiente. Mi avevi anche promesso che tutti avrebbero portato al collo pesanti crocefissi dorati, medaglioni di Padre Pio e miei busti in marmo. Chi li ha visti? Quel posapiano di Cannavaro doveva portare sulle spalle l’icona di Santa Lucia, che i tiri devìa, e Gattuso la statua di San Callisto, che agli avversari incrina il menisco. Non ho visto niente di tutto questo.

E dov’era il cero di otto metri che Buffon avrebbe dovuto tenere acceso dietro la porta? E le majorettes carmelitane sugli spalti? Insomma, sapevi che la nostra squadra era stanca e logora, e che ci sarebbe voluto un miracolo, ma non hai avuto fede, tradendo i valori più alti della cultura italica e occidentale. Io non sono vendicativo, ma non allenerai più la nazionale. Ho tre nomi in ballottaggio: Tardelli, il cardinale Milingo e il presidente del grande Milan di Sacchi. Ma non resterai senza lavoro. La Libertas Maracalagonis è una delle realtà più interessanti del calcio sardo, e non appena avrai messo a letto le pecore, avrai tutto il tempo per allenarla a dovere.

Congratulazioni, il mister dei mister, Silvio”

 

Stefano BENNI - TI PIACE IL PRESEPE?


L’antico rito del Natale nell’era del buonismo: e arriva il Bambino con il casco tratto da  di mercoledì 23 dicembre 1998

 SCENA: un negozio di una grande città italiana. Personaggi, il cliente e il venditore.

 Cliente - Buongiorno. Quest’ anno vorrei reintrodurre nella mia casa l’antica tradizione del presepe.

Venditore - Modestamente siamo i più forniti della città. Da dove cominciamo? Dalla capanna?

- Sì, ecco, sono indeciso tra la stalla e la grotta.

- Escluderei la grotta, signore. La grotta richiama il dissesto del territorio, i container del terremoto, i palazzi che crollano.

Lei non vuole fare un presepe ideologico, suppongo turberebbe la sensibilità dei cittadini e i lavori per il Giubileo.

- Allora meglio la stalla?

- Assolutamente no. Un minimo di verismo ci vuole. Le stalle della nostra zona sono state tutte trasformate in ristoranti tipici. E poi cosa vorrebbe insinuare, che la nostra amministrazione ospita gli immigrati in stalle? Oppure che qualsiasi famiglia palestinese o magrebina può occupare un edificio in barba alle regole civili e immobiliari della nostra città?.

- MA NO, non volevo essere frainteso, è che ho visto quei modellini di stalla lì sul bancone...

- Non sono in vendita. La prima stalla sarà ristrutturata e ceduta all’Università che ci farà una facoltà di Massoneria comparata. La seconda diventerà una banca, la terza è della Curia che affitterà solo a studenti benestanti e a charter di suore, l’ultima, poiché il pavimento sta cedendo, diventerà un garage per fuoristrada.

- E allora?

- E allora, ecco la nuova sede della Sacra Famiglia. Un elegante villino unifamiliare, vista sulla pianura di Betlemme, due bagni, box auto.

- Ma... mi sembra troppo per un semplice falegname.

- Un falegname? No, guardi, facciamola finita con l’immagine del vecchio San Giuseppe con barba e bastone. Il suo presepe non deve far pensare a una città di barboni. Ecco la statuina del nuovo San Giuseppe. Ha un bel loden, il look alla Raz Degan, e fa il mobiliere. E vicino, ecco Maria.

- Ma com’è vestita?

- Ha un completo Armani in miniatura. La preferiva col solito scialle e la testa coperta?

- Vuole forse speculare ponendo la Madonna al centro di una scena di povertà?

- No, guardi, non guastiamo il Natale con questo buonismo di facciata. Eccola qui, e non inginocchiata, ma seduta su una comoda poltrona.

- Sarà, ma mi sembra un presepe molto strano. Almeno il bue e l’asinello, me li dà?

- Il bue? Ma vuole scherzare, con i rischi della mucca pazza e le nuove leggi europee e le quote latte? E in quanto all’ asino, il riscaldamento a alito animale è proibito in quanto igienicamente insicuro e non rilevabile al contatore. Questa casetta ha il riscaldamento autonomo a pila. Invece del bue e dell’asino, ecco le statuine di due bei cani da guardia, perché bisogna difendere la pace domestica dalla marmaglia microcriminale. Preferisce una coppia di dobermann o due rottweiler?

- I dobermann vanno bene. Ma almeno l’angelo e la cometa me li lascia comprare?

- La cometa no, c’è una legge che regola l’illuminazione pubblica, però le posso montare sul tetto un’insegna pubblicitaria, ad esempio quella del nostro negozio, Presepi Jubileus, in neon azzurro pulsante.

 

GRAZIA VERASANI, L’AMORE E’ UN BAR SEMPRE APERTO


Basta uno squillo a svegliarmi, e ho già la mano sul ricevitore. Con un filo di corda vocale dico Pronto e guardo con orrore le lancette rosse della sveglia che segnano le dieci. Chi mi conosce un minimo, penso, non si sognerebbe mai di chiamarmi a quest’ora che per me è ancora l’alba. Dev’essere successo qualcosa di grave, penso anche, anzi di gravissimo, se no non si spiega. Poi, piano piano, la voce mesta di Nadia comincia a sciorinare l’ultima malefatta di Mario, suo fidanzato immaginario e mio migliore amico.

Mi intrometto a fatica nel delirio chiamandola due o tre volte per nome. Un Nadia detto più forte finalmente le impone di tacere.

«Nadia» dico. «Sono solo le dieci del mattino!»

E lei, piagnucolando: «Ma io (pausa) sto male!»

«Perché», faccio io «tra due ore starai meglio? Richiamami più tardi».

Metto giù, anche se so che non riprenderò sonno; spazzo via un lieve senso di colpa grattandomi il naso e rifletto.

Non le sopporto più le pene d’amore, né le mie né quelle degli altri. Non ho più niente da dire inproposito, nessun consiglio, nessun parere. Le mie orecchie sono diventate selettive. Forse hanno fatto dei test e hanno imparato a dare ascolto solo alle cose che sono in grado di tollerare.

Chissà, magari è una conquista, un traguardo. O è che sto diventando sempre più egoista?

Sono sveglia.

Sbarro gli occhi nel semibuio e Ofilonoff salta sul letto strusciandosi contro la mia faccia e miagolando; uno che se non altro ha un problema concreto: ha fame. Ecco, un altro giorno in mano e non so cosa farne.

Avessi almeno potuto continuare a dormire…

Mi alzo, incespico a piedi nudi nel corridoio – con Ofilonoff dietro –, e mi fermo per la consueta sosta davanti alla porta di casa. Di una porta normale ormai conserva solo la maniglia, per il resto è tutta tappezzata di foglietti adesivi con su scritti orari di piscina (mai che ci sia andata una volta), frasi tratte da film o canzoni, campagna abbonamenti Il Bologna è una fede, numeri di cellulari e, infine, il mio o.d.g., cioè il piccolo elenco delle cose inutili che devo fare oggi.

Senza questo foglietto sarei persa. Lontani i tempi in cui a scuola meravigliavo studenti e professori con la mia memoria da elefante! Ora ho bisogno di appuntarmi tutto: telefonate, incontri, scadenze, cose da comprare. Non c’è giorno che non vada a leggere quel foglietto. E non c’è giorno che non rimandi tutto al giorno dopo.

 

Stefano BENNI - L’ANNO DEL TEMPO MATTO


La storia che vi racconterò è una storia del mio paese che si chiama Sompazzo ed è famoso per due specialità: le barbabietole e i bugiardi.

Il vecchio del paese, Nonno Celso, profetizzò che quell’anno il tempo sarebbe stato balordo. Disse che lo si poteva capire da tre segni:

le folaghe che ogni anno passavano sopra il paese, erano passate ma in treno. Il capostazione ne aveva visti due vagoni pieni;

le ciliegie erano in ritardo: quelle che c’erano sugli alberi erano dell’anno prima;

le ossa dei vecchi non facevano male. In compenso tutti i bambini avevano la gotta e le bambine i reumatismi.

Nonno Celso disse che ne avremmo viste di belle.

Bene, a febbraio era già primavera. Tutte le margherite spuntarono in una sola mattina. Si sentì un rumore come se si aprisse un gigantesco ombrello, ed eccole tutte al loro posto.

Dagli alberi cominciò a cadere il polline a mucchi. Tutto il paese starnutiva, e arrivò un’epidemia di allergie stranissime: ad alcuni si gonfiava il naso, ad altri spuntava una maniglia. La frutta maturava di colpo: ti addormentavi sotto un albero di mele acerbe e ti svegliavi coperto di marmellata.

Poi toccò alla pioggia dare i numeri. Pioveva solo un’ora al giorno, ma sempre nello stesso punto: sulla casa del sindaco. Poi la nuvolona si metteva a passeggiare avanti e indietro sul paese e appena vedeva qualcuno col cappello, zac, glielo incendiava con un fulminino. Poi venne un vento profumato e afrodisiaco. Quando soffiava, la gente si imbirriva e correva nelle fratte a due, a tre, a gruppi. Il prete era disperato. Un giorno, mentre inseguiva una coppia sorpresa a porcellare in sagrestia, prese una folata in faccia e lo trovarono in un pagliaio con una fedele ma non troppo.

Ad aprile ecco di colpo l’estate. Quarantasette gradi. Il grano maturò e in due giorni era cotto. Raccogliemmo duecento quintali di sfilatini di pane. Faceva così caldo che le uova bollivano non solo sul tetto delle macchine, ma anche nel culo delle galline, le poverette starnazzavano e la mattina trovavamo le omelettes nella paglia del pollaio. Il laghetto si prosciugò in un soffio. I pesci trovarono rifugio nelle vasche da bagno e non c’era verso di mandarli via, ci toccava far la doccia insieme alla trota. I pesci gatto davan la caccia ai topi. Tutti portavamo dei cappelli di paglia, ma il sole incendiava anche quelli, e allora ci mettemmo dei cappelli di zinco e lamierino, e venne l’esercito a controllare perché un ricognitore aereo aveva detto che a Sompazzo c’era stata una invasione di marziani.

Subito dopo cominciò a grandinare. Ogni volta iniziava con tre tuoni, poi in cielo si sentiva un vocione che diceva “alè” e venivano giù dei panettoni di grandine. A Biolo ne cadde uno grande come una forma di parmigiano, con dentro un corvo ben conservato.

Tornò un caldo da Africa. La gente dormiva per strada, dentro ai frigoriferi con la prolunga. Il gelataio lavorava ventiquattro ore su ventiquattro e dopo quell’estate si comprò un grattacielo a Montecarlo.

 

Stefano BENNI - IL DITTATORE E IL BIANCO VISITATORE


Beati coloro che hanno fame e sete di

giustizia perché saranno giustiziati.

(Piergiorgio Bellocchio)

 C’era un dittatore che aveva incarcerato, torturato e ammazzato uomini e donne del suo Paese. Un giorno gli venne annunciata la visita del Capo degli Uomini Buoni.

Poiché questo Capo era molto potente, viaggiava per il mondo e ovunque andasse la gente accorreva a vederlo, il dittatore dovette prepararsi a riceverlo nel modo migliore.

Ammazzò tutti i torturati perché non si dicesse che c’era la tortura, tutte le mamme dei desaparecidos perché non dicessero che i figli erano desaparecidos, tutti i prigionieri perché non si dicesse che le prigioni erano piene, e riempì la città di striscioni di benvenuto.

Ma la notte prima della visita non dormì: sapeva che il Capo degli Uomini Buoni conosceva il bene e il male ed era venuto per rimproverarlo: gli avrebbe detto delle cose terribili davanti a tutti smascherando i suoi delitti.

Così la mattina all’aeroporto era molto nervoso. Invece della solita divisa con draghi e pugnali, si era messo un completo grigio con la cravatta, e al posto dei gorilla generali aveva una scorta di suorine. Ogni suorina teneva in braccio un bambino, di cui il Capo degli Uomini Buoni era ghiotto.

Il Visitatore scese tutto vestito di bianco da un aereo bianco, baciò la terra e i bambini, salutò il dittatore e insieme percorsero i viali della città tra gli applausi della gente, anche perché chi non applaudiva veniva bastonato.

Quando furono nell’appartamento del dittatore il Capo degli Uomini Buoni chiuse a chiave la porta e disse:

- Adesso io e lei facciamo due chiacchiere.

 

Barzellette


Una notte:la moglie chiede al marito spegni le luci seno entrano le zanzare; il marito le spegne: 10 minuti dopo entra una lucciola e la moglie dice: ora le zanzare ci vengono a cercare pure con la torcia.

Due carabinieri vanno in banca con una macchina di servizio entrano in banca e nel frattempo gli rubano la macchina. quando se ne accorgono uno di loro chiama il maresciallo e dice:”maresca’ hanno rubato la macchina”  “avete visto chi è stato”  “noo ma abbiamo preso il numero della targa.

Ci sono due carabinieri allo specchio, uno dice all’altro: guarda due colleghi,andiamo a salutarli.E l’altro: fermo! Stanno venendo loro.

 

Al bar: “Perché bevi con gli occhi chiusi?”. “Perché il dottore ha detto che l’alcool non lo devo neppure vedere!”

 “Dottore, dottore! Che cosa mi ha diagnosticato ieri? Leone, pesci...”
”CANCRO, signora! CANCRO!”

 Un pittore entra nel suo studio ove trova la sua segretaria allarmata: “Pina che ti è successo?” “Devo darle due notizie, una buona ed una cattiva” “Qual è quella buona?” “E’ venuto un signore, mi ha chiesto se i suoi quadri sarebbero aumentati di valore dopo la sua morte, gli ho risposto affermativamente e lui li ha comprati tutti.” “Benone! E la cattiva?” “L’acquirente era il suo medico.”

 

Marco Bettini - Color sangue


2000, Novembre

La lama gli aprì la pancia da sotto lo sterno fino al pube. Siero e sangue erano colati dentro l’addome. Le budella, trattenute nel loro sacco, furono offese dall’emorragia. Il coltello tagliò di nuovo. Due mani entrarono nel varco, come per strappargli le viscere, e scollarono l’intestino dalla parete muscolare. Sotto, affiorò la carne scura, chiazzata di nero.

Per un caso misterioso, lui era ancora vivo. Nella cavità ristagnava il sangue, che affluiva da ferite profonde. Le mani impietose continuarono a rovistare. Il filo del rasoio colpì ancora, creò dolore e nuovi crateri, rimestò la carne. Le dita frugarono, trovarono il rene sinistro e lo tirarono con forza verso il basso, spezzandolo in monconi. Intensi fiotti di liquido rosso pulsarono, solo per un attimo, e si riversarono sul fondo dell’oscena cavità.

A sacrificio quasi compiuto, il pezzo superiore del rene era rimasto attaccato al peduncolo formato dai principali vasi sanguigni. Il coltello lo tagliò di netto. Dai cavi interrotti la vita fuggiva in fretta. Nel buco spalancato sotto lo stomaco, polpa, muscoli e organi imploravano cecità.

Allora la cavità addominale fu colpita con scariche elettriche.

«Va bene», disse il chirurgo. «L’emorragia si è fermata. Completiamo l’emostasi, mettiamo il drenaggio e chiudiamo.»

Marco chiuse il portone e mentre si girava in direzione della sua auto urtò unragazzo che stazionava lì davanti ogni mattina, da più di una settimana. Lo vedeva sul marciapiede fissare il portone di legno e vetro con lo sguardo di un predatore davanti a uno gnu zoppicante. Lo oltrepassò senza scusarsi. Aspirò con la bocca aperta un sorso di nebbia mista all’aroma di pollo alla cantonese, cuscus e anidride solforosa, e si avviò verso l’auto.

Non riusciva a distinguere il marciapiede dalla parte opposta della strada. Si mosse quasi a tentoni verso la zona dove aveva parcheggiato la Volvo. Alle sue spalle, continuò a percepire la presenza del ragazzo. Quella faccia dai tratti africani, fissa davanti al portone di casa, lo metteva a disagio

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Cecco Angiolieri


Una notte del gennaio del 1309, mentre giaceva su un pagliericcio del lazzaretto di Siena, avvolto in bende nauseabonde, Cecco Angiolieri, poeta e bestemmiatore, fece un sogno. Sognò che era una torrida giornata estiva e che stava passando davanti al duomo. Sapendo che quel luogo era fresco pensò di entrarvi per sfuggire alla canicola, ma invece di genuflettersi e di bagnarsi le dita nell’acqua benedetta, incrociò le dita in gesto di scongiuro, perché temeva che quel luogo gli portasse sfortuna.

Nella prima cappella a destra c’era un pit tore che stava dipingendo una Madonna. Il pittore era un giovane biondo e sedeva su uno scranno, con la tavolozza fra le braccia, in atteggiamento di riposo. La tavola sacra era quasi finita: era una Vergine dagli occhi obliqui e dal sorriso impercettibile che reggeva sulle ginocchia, adagiato nelle pieghe delle vesti, il bambino Gesù. Il pittore lo salutò con garbo e Cecco Angiolieri rispose con una risata. Poi si mise a osservare il quadro e provò un grande malessere. Lo infastidiva l’espressione di quella signora altera che guardava superbamente il mondo come se avesse in gran dispetto le cose terrene. Fu più forte di lui: si avvicinò al quadro e tendendo il braccio destro gli fece un gesto osceno.

Il giovane pittore balzò dal suo scranno e cercò di fermarlo, ma Cecco Angiolieri, come invasato, si divincolò e fece un gesto osceno anche col braccio sinistro. Allora la Vergine mosse gli occhi come se fossero occhi umani e lo fulminò con lo sguardo. Cecco Angiolieri sentì uno strano brivido in tutto il corpo, cominciò a rattrappirsi e a rimpicciolirsi, vide che le membra gli si stavano ricoprendo di pelo nero, si accorse che una lunga coda gli spuntava fra le gambe e cercò di urlare, ma invece di un urlo dalla bocca gli uscì un miagolio spaventoso e lui, piccolo e furibondo ai piedi del pittore, si accorse di essere diventato un gatto. Fece un balzo in avanti e uno indietro, come impazzito nella mostruosa prigione di quel nuovo corpo, digrignò i denti furibondo e uscì dalla chiesa miagolando selvaggiamente. Intanto sulla piazza era calata la sera.

Cecco Angiolieri dapprima strisciò lungo le pareti, poi si guardò intorno per vedere se qualcuno faceva caso a lui. Ma la piazza era quasi deserta. Sull’angolo, vicino a una taverna, c’era un gruppo di giovani dall’aria furfantesca che avevano portato fuori i boccali e bevevano. Cecco Angiolieri pensò di passare davanti alla taverna, perché aveva fame, e forse avrebbe potuto trovare qualche crosta di formaggio. Strisciò lungo il muro della taverna e passò davanti alla porta, che era illuminata con due torce sugli stipiti. A quel punto uno dei giovinastri lo chiamò, facendo il tipico rumore delle lab bra che si fa ai gatti, e gli fece vedere una cotica di prosciutto. Cecco Angiolieri si precipitò ai suoi piedi e prese in bocca la cotica, ma in quel mentre i giovani lo afferrarono e stringendolo forte lo portarono dentro la taverna.

Cecco Angiolieri tentò di mordere e di graffiare, ma i giovinastri lo tenevano ben saldo: chi gli stringeva la bocca e chi gli immobilizzava le zampe, cosicché nulla potè fare. Quando furono dentro i giovinastri presero il barattolo di pece che serviva alle torce e gli cosparsero ben bene il pelo con l’unguento. Poi, con una torcia, gli appiccarono fuoco e lo lasciarono libero. Cecco Angiolieri, trasformato in una palla di fuoco, schizzò fuori miagolando terribilmente, si lanciò contro le pareti delle case, si rotolò per terra, ma il fuoco non si spengeva. Comin ciò a percorrere come una saetta le buie viuzze di Siena, illuminandole al suo passaggio. Non sapeva dove andare, si lasciava trasportare dall’istinto.

Svoltò due angoli, percorse tre vie, attraversò una piazzuola, salì una scalinata, arrivò davanti a un palazzo. Lì viveva suo padre. Cecco Angiolieri salì lo scalone, passò accanto ai servi spaventati, entrò nella sala da pranzo dove suo padre stava cenando e urlò: padre mio, sono diventato un fuoco, vi prego, salvatemi! E in quel momento Cecco Angiolieri si svegliò. I fisici gli stavano togliendo le bende e il suo corpo, ricoperto dalle terribili piaghe del fuoco di Sant’Antonio, gli bruciava come una fiamma.

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Michelangelo Merisi

 

La notte del primo gennaio del 1599, mentre si trovava nel letto di una prostituta, Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore e uomo iracondo, sognò che Dio lo visitava. Dio lo visitava attraverso il Cristo, e puntava il dito su di lui. Michelangelo era in una taverna, e stava giocando di denaro. I suoi compagni erano dei furfanti, e qualcuno era ubriaco. E lui, lui non era Michelangelo Merisi, il pittore celebre, ma un avventore qualsiasi, un malandrino. Quando Dio lo visitò stava bestemmiando il nome di Cristo, e rideva. Tu, disse senza dire il dito del Cristo. Io?, chiese con stupore Michelangelo Merisi, io non sono un santo per vocazione, sono solo un peccatore, non posso essere scelto.

Ma il volto del Cristo era inflessibile, senza scampo. E la sua mano tesa non lasciava spazio a nessun dubbio. Michelangelo Merisi abbassò la testa e guardò il denaro sul tavolo. Ho stuprato, disse, ho ucciso, sono un uomo con le mani lorde di sangue.

Il garzone dell’osteria arrivò portando fagioli e vino. Michelangelo Merisi si mise a mangiare e a bere. Tutti erano immobili, vicino a lui, solo lui muoveva le mani e la bocca come un fantasma. Anche il Cristo era immobile e tendeva la sua mano immobile col dito puntato. Michelangelo Merisi si alzò e lo seguì. Sbucarono in un vicolo sudicio, e Michelangelo Merisi si mise a orinare in un canto tutto il vino che aveva bevuto quella sera.

Dio, perché mi cerchi?, chiese Michelangelo Merisi al Cristo. Il figlio dell’uomo lo guardò senza rispondere. Passeggiarono lungo il vicolo e sbucarono su una piazza. La piazza era deserta. Sono triste, disse Michelangelo Merisi. Il Cristo lo guardò e non rispose. Si sedette su una panchina di pietra e si tolse i sandali. Si massaggiò i piedi e disse: sono stanco, sono venuto a piedi dalla Palestina per cercarti.

Michelangelo Merisi stava vomitando appoggiato al muro di un cantone. Ma io sono un peccatore, gridò,

non devi cercarmi. Il Cristo si avvicinò e gli toccò un braccio. Io ti ho fatto pittore, disse, e da te voglio un dipinto, dopo puoi seguire la strada del tuo destino.

Michelangelo Merisi si pulì la bocca e chiese: quale dipinto?

La visita che ti ho fatto stasera nella taverna, solo che tu sarai Matteo. D’accordo, disse Michelangelo Merisi, lo farò. E si girò nel letto. E in quel momento la prostituta lo abbracciò russando.

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Francisco Goya y Lucientes


La notte del primo maggio del 1820, mentre la sua intermittente pazzia lo visitava, Francisco Goya y Lucientes, pittore e visionario, fece un sogno. Sognò che con la sua amante della gioventù stava sotto un albero. Era l’austera campagna di Aragona, e il sole era alto. La sua amante stava su un dondolo, e lui la spingeva per la vita. La sua amante aveva un ombrellino di pizzo e rideva con risate brevi e nervose. Poi la sua amante cadde sul prato e lui la seguì a ruzzoloni.

Rotolarono sulle pendici del colle, finché arrivarono a un muro giallo. Si affacciarono al muro e videro dei soldati, illuminati da una lanterna, che stavano fucilando degli uomini. La lanterna era incongrua, in quel paesaggio assolato, ma illuminava lividamente la scena. I soldati spararono e gli uomini caddero coprendo le pozze del loro sangue. Allora Francisco Goya y Lucientes sfilò il pennello da pittore che teneva alla cintura e avanzò brandendolo minacciosamente. I soldati, come per incanto, sparirono, spaventati da quell’apparizione. E al loro posto apparve un gigante orrendo che stava divorando una gamba umana. Aveva i capelli sporchi e la faccia livida, due fili di sangue gli scorrevano agli angoli della bocca, i suoi occhi erano velati, però rideva.

Chi sei?, gli chiese Francisco Goya y Lucientes. Il gigante si pulì la bocca e disse: sono il mostro che domina l’umanità, la Storia è mia madre. Francisco Goya y Lucientes fece un passo e brandì il suo pennello. Il gigante sparì e al suo posto apparve una vecchia. Era una megera sdentata, con la pelle di cartapecora e gli occhi gialli.

Chi sei?, le chiese Francisco Goya y Lucientes. Sono la disillusione, disse la vecchia, e domino il mondo, perché ogni sogno umano è sogno breve. Francisco Goya y Lucientes fece un passo e brandì il suo pennello. La vecchia sparì e al suo posto apparve un cane. Era un piccolo cane sepolto nella sabbia, solo la testa restava fuori.

Chi sei?, gli chiese Francisco Goya y Lucientes. Il cane tirò bene fuori il collo e disse: sono la bestia della disperazióne e mi prendo gioco delle tue pene. Francisco Goya y Lucientes fece un passo e brandì il suo pennello. Il cane sparì e al suo posto apparve un uomo. Era un vecchio grasso, con la faccia bolsa e infelice.

Chi sei?, gli chiese Francisco Goya y Lucientes.

L’uomo fece un sorriso stanco e disse: sono Francisco Goya y Lucientes, contro di me non potrai nulla. E in quel momento Francisco Goya y Lucientes si svegliò e si ritrovò solo nel suo letto.

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Lucio Apuleio


In una notte di ottobre del 165 dopo Cristo, nella città di Cartagine, Lucio Apuleio, scrittore e mago, fece un sogno. Sognò di trovarsi in una cittadina della Numidia, era la sera di una torrida estate africana, lui passeggiava vicino alla porta principale della città quando fu attirato da risa e da schiamazzi. Attraversò la porta e vide che vicino alle rosse mura d’argilla c’era un gruppo di saltimbanchi che davano spettacolo.


Un acrobata seminudo, col corpo tinto di biacca, si dimenava in bilico su una corda fingendo di essere sul punto di cadere. La folla rideva e temeva, e i cani abbaiavano. Poi l’acrobata perse l’equilibrio, ma si afferrò con una mano alla corda restando appeso. La folla ruppe in un grido di spavento e poi applaudì contenta. I saltimbanchi girarono un argano che teneva tesa la corda e l’acrobata si calò a terra facendo mille smorfie. Un pifferaio avanzò nel cerchio di terra battuta illuminata dai bagliori dei fuochi e cominciò a suonare una musica orientaleggiante. E allora da un carrozzone uscì una donna dai seni abbondanti, coperta di veli, che teneva in mano una frusta. La donna avanzò frustando l’aria e si avvolse il corpo con lo scudiscio. Era una donna dalla capigliatura mora e dalle occhiaie profonde, e il belletto del viso, a causa del sudore, le colava lungo le guance.


Apuleio avrebbe voluto andarsene, ma una forza misteriosa lo obbligava a restare, a tenere gli occhi fissi su quella femmina. I tamburi cominciarono a suonare, prima lentamente e poi con frenesia, e a quel punto, da sotto il telone dove stavano le bestie, uscirono quattro maestosi cavalli bianchi e un povero asino stanco. La danzatrice fece schioccare la frusta e i cavalli si impennarono dando inizio a un veloce carosello. L’asino si adagiò da una parte, vicino alle gabbie delle scimmie, e con la coda prese lentamente a
scacciarsi le mosche. La danzatrice fece schioccare nuovamente la frusta e i cavalli si fermarono e si inginocchiarono emettendo lunghi nitriti. Allora la donna, con un’insospettata agilità per la sua corpulenza, spiccò un balzo e tenendo un piede su un cavallo e un piede sull’altro, cominciò a cavalcare due bestie tenendosi ritta con le gambe divaricate sulle loro groppe. E cavalcando agitava oscenamente il manico della frusta davanti al ventre, mentre la folla mormorava per il divertimento. Allora i tamburi smisero di suonare e l’asino stanco, come se obbedisse a un ordine invisibile, si girò sulla schiena, con le zampe all’aria, ed esibì al pubblico il suo fallo eretto. La donna, girando in tondo, gridava che al proseguimento dello spettacolo potevano restare solo quelli che avrebbero pagato monete suonanti, e due saltimbanchi vestiti da guardie, muniti di frusta, cacciarono i ragazzi e i mendicanti.
Apuleio si ritrovò solo, nel cerchio dei pochi. Trasse dalla borsa due monete d’argento, pagò, poi si mise a guardare lo spettacolo. La donna afferrò il fallo dell’asino e strusciandoselo con lussuria sul ventre cominciò a danzare una languida danza, scostando i veli per mostrare le sue grazie. Apuleio si avvicinò e alzò una mano, e allora l’asino aprì la bocca, ma invece di ragliare emise parole umane.

Sono Lucio, disse, non mi riconosci?

Quale Lucio?, chiese Apuleio.

Il tuo Lucio, disse l’asino, quello delle tue avventure, il tuo amico Lucio.

Apuleio si guardò intorno convinto che la voce venisse dalle vicinanze, ma la porta delle mura era già chiusa, le sentinelle dormivano e dietro di lui respirava silenziosa la fonda notte africana. Questa strega mi ha fatto un maleficio, disse l’asino, mi ha imprigionato in queste sembianze, solo tu puoi liberarmi, tu che sei scrittore e mago.
Apuleio balzò verso il fuoco e afferrò un tizzone ardente, tracciò nell’aria dei segni, pronunciò le parole che sapeva di dover pronunciare. La donna gridò, sulla bocca le si disegnò una smorfia di disgusto e il suo volto cominciò a raggrinzirsi assumendo le sembianze di una vecchia. Allora, come per incanto, la donna si dissolse nell’aria, e con lei sparirono i saltimbanchi, la cinta delle mura, la notte africana.

Improvvisamente fu il giorno: era una splendida gior nata di luce, a Roma, Apuleio passeggiava lungo il Foro e accanto a lui passeggiava l’amico Lucio. Passeggiando chiacchieravano, e intanto guardavano le schiave più belle che si aggiravano per il mercato. A un certo punto Apuleio si fermò e trattenendo Lucio per la tunica lo guardò negli occhi e gli disse: stanotte ho fatto un sogno.

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Giacomo Leopardi


Una notte dei primi di dicembre del 1827, nella bella città di Pisa, in via della Faggiola, dormendo fra due materassi per proteggersi dal terribile freddo che stringeva la città, Giacomo Leopardi, poeta e lunatico, fece un sogno. Sognò che si trovava in un deserto, e che era un pastore. Ma, invece di avere un gregge che lo seguiva, stava comodamente seduto su un calesse trainato da quattro pecore candide, e quelle quattro pecore erano il suo gregge.
Il deserto, e le colline che lo orlavano, erano di una finissima sabbia d’argento che riluceva come la luce delle lucciole. Era di notte ma non faceva freddo, anzi, pareva una bella nottata di tarda primavera, così che Leopardi si tolse il pastrano con cui era coperto e lo appoggiò sul bracciale del calesse.

Dove mi portate, mie care pecorelle?, chiese.

Ti portiamo a spasso, risposero le quattro pecore, noi siamo delle pecorelle vagabonde.

Ma cos’è questo luogo?, chiese Leopardi, dove ci troviamo?

Poi lo scoprirai, risposero le pecorelle, quando avrai incontrato la persona che ti aspetta. Chi è questa persona?, chiese Leopardi, lo vorrei proprio sapere.

Eh eh, risero le pecorelle guardandosi fra di loro, noi non possiamo dirtelo, deve essere una sorpresa. Leopardi aveva fame, e avrebbe avuto voglia di mangiare un dolce; una bella torta con i pinoli era proprio quello di cui aveva voglia.

Vorrei un dolce, disse, non c’è un luogo in cui si possa comprare un dolce in questo deserto?
Subito dietro quella collina, risposero le pecorelle, abbi un po’ di pazienza. Arrivarono in fondo al deserto e aggirarono la collina, ai piedi della quale c’era una bottega. Era una bella pasticceria tutta di cristallo e sfavillava di una luce di arge nto. Leopardi si mise a guardare la  vetrina, indeciso su cosa scegliere. In prima fila c’erano le torte, di tutti i colori e di tutte le dimensioni: torte verdi di pistacchio, torte vermiglie di lamponi, torte gialle di limone, torte rosa di fragola. Poi c’erano i marzapane, in forme buffe o appetitose: fatti a mela e ad arancia, fatti a ciliegia, o in forma di animali. E infine venivano gli zabaioni, cremosi e densi, con una mandorla sopra. Leopardi chiamò il pastic -cere e comprò tre dolci: un tortino di fragole, un marzapane e uno zabaione. Il pasticcere era un omino tutto d’argento, con i capelli candidi e gli occhi azzurri, che gli dette i dolci e per omaggio una scatola di cioccolatini. Leopardi risalì sul calesse e mentre le pecorelle si rimettevano in cammino si mise a degustare le squisitezze che aveva comprato. La strada aveva preso a salire, e ora si inerpicava sulla collina. E, che strano, anche quel terreno riluceva, era traslucido e mandava un bagliore d’argento.
Le pecorelle si fermarono davanti a una casetta che sfavillava nella notte. Leopardi scese perché capì di essere arrivato, prese la scatola di cioccolatini e entrò nella casa. Dentro c’era una ragazza seduta su una sedia che ricamava su un tamburello.

Vieni avanti, ti aspettavo, disse la ragazza. Si girò e gli sorrise, e Leopardi la riconobbe. Era Silvia. Solo che ora era tutta d’argento, aveva le stesse sembianze di un tempo, ma era d’argento. Silvia, cara Silvia, disse Leopardi prendendole le mani, come è dolce rivederti, ma perché sei tutta d’argento?
Perché sono una selenita, rispose Silvia, quando si muore si viene sulla luna e si diventa così. Ma perché anch’io sono qui, chiese Leopardi, sono forse morto? Questo non sei tu, disse Silvia, è solo la tua idea, tu sei ancora sulla terra. E da qui si può vedere la terra?, chiese Leopardi.

Silvia lo condusse a una finestra dove c’era un cannocchiale. Leopardi avvicinò l’occhio alla lente e subito vide un palazzo. Lo riconobbe: era il suo palazzo. Una finestra era ancora accesa, Leopardi ci guardò dentro e vide suo padre, con la camicia da notte e il pitale in mano, che stava andando a letto. Sentì una fitta al cuore e spostò il cannocchiale. Vide una torre pendente su un grande prato e, vicino, una strada tortuosa con un palazzo dove c’era un debole lume. Si sforzò di guardare dentro la finestra e vide una stanza modesta, con un cassettone e un tavolo sul quale c’era un quaderno accanto a cui si stava consumando un mozzicone di candela. Dentro al letto vide se stesso, che dormiva fra due materassi.

Sono morto?, chiese a Silvia.

No, disse Silvia, stai solo dormendo e sogni la luna.

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Achille Claude Debussy


La notte de l ventinove giugno del 1893, una limpida notte d’estate, Achille -Claude Debussy, musicista e esteta, sognò che si trovava su una spiaggia. Era una spiaggia della maremma toscana, orlata di macchia bassa e di pini. Debussy arrivò con dei pantaloni di lino e un cappello di paglia, entrò nel capanno che gli aveva assegnato la Pinky e si tolse il vestito. Intravvide la Pinky sulla spiaggia, ma invece di farle un cenno di saluto scivolò nell’ombra del capanno. La Pinky era una bella signora proprietaria di una villa, si occupava dei rari bagnanti sulla sua spiaggia privata e girava sulla marina coperta da un velo azzurro che le scendeva dal cappello. Apparteneva a una vecchia nobiltà e parlava a tutti dando del tu. Questo non piaceva a Debussy, che amava essere trattato con formule di cortesia.
Prima di infilarsi il costume fece alcune flessioni sulle ginocchia e poi si accarezzò a lungo il sesso, che era semieretto, perché la visione di quella spiaggia solitària, col sole e l’azzurro del mare, gli dava una certa eccitazione. Indossò un costume austero, di colore blu, con due stellette bianche sulle spalle. E in quel momento vide che la Pinky, lei e i suoi due alani che l’accompagnavano sempre, era sparita, e sulla spiaggia non c’era nessuno. Debussy attraversò la spiaggia con una bottiglia di champagne che aveva
portato con sé. Arrivato sul bagnasciuga scavò una piccola buca nella sabbia e vi infilò la bottiglia perché restasse in fresco, poi entrò in mare e nuotò.

Sentì subito il benefico influsso dell’acqua. Amava il mare più di ogni cosa e avrebbe voluto dedicargli una musica. Il sole era allo zenit e la superficie dell’acqua sfavillava. Debussy rientrò calmamente, con ampie bracciate. Quando arrivò sulla spiaggia dissotterrò la bottiglia di champagne e ne bevve circa la metà. Gli parve che il tempo si fosse fermato e pensò che la musica doveva fare questo: fermare il tempo.
Si avviò verso il capanno e si spogliò. Mentre si spogliava sentì dei rumori nella macchia e si affacciò. Fra i cespugli, a pochi metri davanti a sé, vide un fauno che corteggiava due ninfe. Una ninfa accarezzava le spalle del fauno, mentre l’altra, con grande languore, faceva dei movimenti di danza.
Debussy provò una grande spossatezza e cominciò a carezzarsi piano piano. Poi avanzò nella macchia. Quando lo videro arrivare, i tre esseri gli sorrisero e il fauno cominciò a suonare uno zufolo. Era proprio la musica che Debussy avrebbe voluto comporre, e mentalmente la registrò. Poi si sedette sugli aghi dei pini, con il sesso eretto. Allora il fauno si prese una ninfa e si allacciò con lei. E l’altra ninfa andò vicino a Debussy con un agile passo di danza e lo accarezzò sul ventre. Era il pomeriggio, e il tempo era immobile.

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Henri de Toulouse-Lautrec


Una notte di marzo del 1890, in un bordello di Parigi, dopo aver dipinto il manifesto per una ballerina che amava non corrisposto, Henri de Toulouse-Lautrec, pittore e uomo infelice, fece un sogno. Sognò che era nelle campagne della sua Albi, e che era d’estate. Lui si trovava sotto un ciliegio carico di ciliegie e avrebbe voluto coglierne qualcuna, ma le sue gambette corte e deformi non gli permettevano di raggiungere il primo ramo carico di frutti. Allora si alzò sulla punta dei piedi e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, le sue gambe cominciarono ad allungarsi fino a che non raggiunsero una lunghezza normale. Dopo che ebbe colto le ciliegie le sue gambe cominciarono di nuovo ad accorciarsi e Henri de Toulouse-Lautrec si ritrovò alla sua altezza di nane-rottolo. Toh, esclamò, dunque posso crescere a mio piacimento. E si sentì felice.

Cominciò ad attraversare un campo di grano. Le spighe lo sovrastavano e la sua testa apriva un solco fra le messi. Gli pareva di essere in una strana foresta dove andava avanti alla cieca. In fondo al campo c’era un ruscello. Henri de Tou louse-Lautrec vi si specchiò e vide un brutto nano dalle gambe deformi vestito con dei pantaloni a quadri
e con un cappello in testa. Allora si alzò sulla punta dei piedi e le sue gambe si allungarono gentilmente, egli diventò un uomo normale e l’acqua gli restituì l’immagine di un bel giovane elegante. Henri de Toulouse-Lautrec si accorciò di nuovo, si spogliò e si immerse nel ruscello per rinfrescarsi. Quando ebbe fatto il bagno si asciugò al sole, si rivestì e si mise in cammino. Stava calando la sera, e in fondo alla pianura vide una corona di luci. Vi si diresse caracollando sulle sue gambette corte e quando vi arrivò si accorse di essere a Parigi. Era l’edificio del Moulin Rouge, con le pale del mulino illuminate che giravano sul tetto. Una grande folla premeva all’ingresso, e vicino alla biglietteria un grande manifesto dai colori sgargianti annunciava lo spettacolo della serata, un can-can. Il manifesto riproduceva una
ballerina che tenendo sollevate le gonne danzava sul proscenio, proprio di fronte alle lampade a gas. 

 

Antonio Tabucchi - Sogno di Fernando Pessoa


La notte del sette marzo del 1914, Fernando Pessoa, poeta e fingitore, sognò di svegliarsi. Prese il caffè nella sua piccola stanza d’affitto, si fece la barba e si vestì in modo elegante. Indossò il suo impermeabile, perché fuori pioveva. Quando uscì mancavano venti minuti alle otto, e alle otto in punto era alla stazione centrale, sul marciapiede del treno diretto a Santarém. Il treno partì con la massima puntualità, alle 8.05. Fernando Pessoa prese posto in un compartimento nel quale era seduta una signora dall’apparente età di cinquant’anni, che stava leggendo. Essa era sua madre ma non era sua madre, ed era immersa nella lettura. Anche Fernando Pessoa si mise a leggere. Quel giorno doveva leggere due lettere che gli erano arrivate dal Sud Africa e che gli parlavano di un’infanzia lontana.
Fui come erba e non mi strapparono, disse a un certo punto la signora dall’apparente età di cinquant’anni. La frase piacque a Fernando Pessoa, che l’appuntò su un taccuino. Intanto, davanti a loro, passava il piatto paesaggio del Ribatejo, con risaie e praterie. Quando arrivarono a Santarém, Fernando Pessoa prese una carrozza. Lei sa dove è una casa sola imbiancata a calce?, chiese al vetturino. Il vetturino era un ometto grassoccio, col naso reso rubicondo dall’alcol. Certo, disse, è la casa del signor Caeiro, io la conosco bene. E frustò il cavallo. Il cavallo cominciò a trotterella re sulla strada maestra fiancheggiata da palmizi. Nei campi si vedevano capanne di paglia con qualche negro sulla porta.
Ma dove siamo?, chiese Pessoa al vetturino, dove mi porta?
Siamo in Sud Africa, rispose il vetturino, e la sto portando a casa del signor Caeiro.
Pessoa si sentì rassicurato e si appoggiò allo schienale del sedile. Ah, dunque era in Sud Africa, era proprio quello che voleva. Incrociò le gambe con soddisfazione e vide le sue caviglie nude, dentro due pantaloni alla marinara. Capì che era un bambino e questo lo rallegrò molto. Era bello essere un bambino che viaggiava per il Sud Africa. Tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una con voluttà. Ne offrì una anche al vetturino che accettò avidamente. Stava calando il crepuscolo quando arrivarono in vista di una casa bianca che stava su un colle punteggiato di cipressi. Era una tipica casa ribatejana, lunga e bassa, con le tegole rosse spioventi. La carrozza imboccò il viale di cipressi, il ghiaino scricchiolò sotto le ruote, un cane abbaiò nella campagna.
Sulla porta di casa c’era una vecchietta con gli occhiali e una cuffia candida. Pessoa capì subito che si trattava della prozia di Alberto Caeiro, e alzandosi sulla punta dei piedi la baciò sulle guance.

 

Antonio Tabucchi - Si sta facendo sempre piu’ tardi


Mia Cara,credo che il diametro di quest’isola non superi i cinquanta chilometri, al massimo. C’è una strada costiera che la gira tutta in tondo, stretta, spesso a picco sul mare, altrimenti pianeggiando in coste brulle che scendono a solitàrie spiaggette di ghiaia orlate di tamerici bruciate dal salino, e in alcune a volte mi fermo. Da una di queste ti parlo, a bassa voce, perché il meriggio e il mare e questa luce bianca ti hanno fatto chiudere le palpebre, stesa qui accanto a me, vedo il tuo seno che si solleva al ritmo pausato della respirazione di chi sta dormendo e non voglio svegliarti. Come piacerebbe questo luogo a certi poeti che conosciamo, perché è così scabro, essenziale, fatto di pietre, montagnole brulle, spini, capre.

Mi è perfino venuto da pensare che quest’isola non esista, e di averla trovata solo perché la stavo immaginando. Non è un luogo, è un buco: intendo della rete. C’è una rete nella quale pare sia ormai impossibile non essere catturati, ed è una rete a strascico. In questa rete io insisto a cercare buchi. Ora mi pareva quasi di aver sentito la tua risatina ironica: “E dagli, cirisiamo ! “. E invece no: hai le palpebre chiuse e non ti sei mossa. Me lo sono solo immaginato. Che ore saranno? Non ho portato l’orologio, che del resto qui è del tutto superfluo.

Ma ti stavo descrivendo questo luogo. La prima cosa a cui fa pensare è a com’è troppo il troppo che il nostro tempo ci offre, almeno a noi che per fortuna stiamo dalla parte migliore. Invece guarda le capre: sopravvivono con niente, mangiano anche i pruni e leccano perfino il sale. Quanto più le guardo, più mi piacciono, le capre. Su questa spiaggetta ce n’è sette o otto che si aggirano fra i sassi, senza pastore, probabilmente appartengono ai proprietari della casetta dove mi sono fermato a mezzogiorno. C’è una specie di caffè sotto un’incannicciata dove si possono mangiare olive, formaggio e melone. La vecchietta che mi ha servito è sorda e ho dovuto gridare per chiedere queste poche cose, mi ha detto che suo marito arrivava subito, ma suo marito non l’ho visto, forse è una sua fantasia, oppure ho capito male. Il formaggio lo fa lei con le sue mani, mi ha portato nel cortile di casa, uno spiazzo polveroso circondato da un muro a secco pieno di cardi dove c’è l’ovile delle caprette. Le ho fatto un segno con la mano a falce, come per significare che dovrebbe tagliare i cardi che bucano e nei quali si inciampa. Lei mi ha risposto con un segno identico, ma più deciso. Chissà cosa voleva dire con quella mano che tagliava l’aria come una lama. Accanto alle stalle il casale si prolonga in una specie di cantina scavata nella roccia dove lei fabbrica il suo formaggio, che è poco più di una ricotta salata fatta stagionare al buio, con una crosta rossastra di peperoncino. Il suo laboratorio è una stanza scavata nella pietra, freschina, direi gelida. C’è uno scrematoio di granito dove lascia cagliare il latte e un mastello dove lavora il siero, su una tavola rugosa e inclinata sulla quale impasta il caglio come se fossero dei panni su un lavatoio, strizzandolo perché ne esca tutta l’acqua; e poi lo infila in due forme dove esso rassoda, sono forme di legno che si aprono e si chiudono a morsa, una è rotonda, e questo è normale, mentre l’altra ha la figura di un asso di picche, o almeno a me è sembrato così, perché ricorda il seme delle nostre carte da gioco. Ho comprato una forma di formaggio e avrei voluto quella fatta come l’asso di picche, ma la vecchia me l’ha rifiutata e mi sono dovuto accontentare di quella rotonda. Le ho chiesto una spiegazione e ne ho cavato dei mugugni sgraziati e gutturali, quasi stridenti, accompagnati da gesti indecifrabili: si circondava la circonferenza del ventre e si toccava il cuore. Chissà: forse voleva significare che quel tipo di formaggio è riservato solo a certe cerimonie essenziali alla vita: la nascita, la morte. Ma come ti dicevo, forse è solo l’interpretazione della mia fantasia che di sovente galoppa, come sai. Ad ogni modo il formaggio è squisito, fra queste due fette di pane scuro che sto mangiando dopo avervi versato un filo d’olio d’oliva, che qui non manca, e qualche foglia di timo che condisce ogni piatto, dal pesce al coniglio selvatico. Avrei voluto chiederti se anche tu avevi appetito: guarda, è squisito, ti ho detto, è una cosa irripetibile, fra un po’ sarà sparito anche lui nella rete che ci sta avvolgendo, per questo formaggio non ci sono buchi né vie d’uscita, approfittane. Ma non volevo disturbarti, era così bello il tuo sonno, e così giusto, e ho taciuto. Ho visto passare un bastimento in lontananza e ho pensato alla parola che ti stavo scrivendo: bastimento. Ho visto passare un bastimento carico di?... Indovina.

 

Luciana Littizzetto - Il rotolo finito della carta igienica


Peccato che l’impollinazione non sia contemplata nelle abitudini sessuali della nostra specie. Sarebbe fantastico. Noi qui col nostro bocciolo, loro lì con i rispettivi pistilli, ciascuno nella propria aiuola e fanno tutto le api. E invece no. Sempre lì a pestarci gli alluci. L’uomo del mio destino ha un’abitudine che lo ammazzerei con le mie mani non fosse che pesa otto volte me. Quando deve riavvitare la caffettiera la stringe fino allo spasimo. La lucchetta in una morsa diabolica.

Potesse ci piazzerebbe sopra anche i sigilli di ceralacca. E se io decido di farmi un caffè per riaprirla devo prenderla a morsi o chiamare i vigili del fuoco. Tanto svitarla per lui... tric, è un attimo. E che ci vuole? Ci vuole che ti odio. Ci vogliono dei bicipiti come i tuoi, esondato nel cranio! Stessa cosa per il freno a mano. Tira che ti ritira prima o poi si staccherà. Prego il cielo ogni giorno. E poi cosa metti il freno a mano a fare? Abitassimo a Salice d’Ulzio lo capirei. Ma via Juvarra è tutta in piano. Non posso passare le mattine a prendere a roncolate la leva del freno col tacco dello stivale che è di gomma e mi rimbalza sul naso. Per quanto tempo ancora dovrò chiedere aiuto ai passanti che già da anni si erano fatti l’idea che fossi deficiente e in questo caso ne hanno la conferma? E poi ditemi. I vostri boy come sparecchiano? Il mio, che è un pirla praticante, con la tecnica del discobolo. A lancio. Tutto si tira e tutto si distrugge. Si butta in frigo a caso, a mosca cieca. Così la mozzarella finisce nel portauovo, il prosciutto nel cassetto della verdura e la pentola della minestra, visto che scagliarla è un po’ un azzardo, la si appoggia in bilico su due mandarini. Un raro caso diminestra basculante.

 

Luciana Lettizzetto - L’indice di virilita‘


Ci vuole calma, Molly. Calma e sangue freddo, come dice quello là. «La fai facile tu. Guarda che faccia.» Ma se sei un fiore. «Sono un cardo gobbo.» Fidanzati? «Nisba. Ho gli ormoni in letargo.» Ma non sei stata a Carrù? Non l’hai trovato un tocco di bue grasso da far bollire nel tuo brodo? «Macché.» Vedrai che adesso che hanno scovato il punto L per i maschi sarà tutta un’altra vita. «Il punto L? Cos’è? Una nuova tecnica di ricamo?» No, niente a che vedere col punto croce, il punto erba e il mezzo punto. Il punto L fa il paio col punto G. Zone super erogene, per intenderci. Il punto G l’aveva scovato un ginecologo tedesco che di nome faceva Grafemberg. «Grafemberg? Mi sembra più il nome di un Emmenthal. Che ne sapeva lui, che era un maschio, di quale fosse il punto di maggior piacere in una donna?» Infatti. Forse era solo un mitomane che credeva di far impazzire le femmine a letto sfiorandole sempre nello stesso punto. Magari loro gridavano per il solletico. O erano sospirarti di noia. Comunque pare che i nostri cichi latini, in fatto di giri di lenzuola, se la cavino benino. Pensa che invece in America il 30% dei maschi ha problemi. «Te credo. Mangiano come orchi. Hanno una sbudrega dell’accidenti. Hanno problemi perché non se lo trovano più.»

 

Luciana Lettizzetto - Gli animali e le bestie


Imbecilli si nasce o si diventa? Chissà. Una cosa è certa. Qualcuno parte già avvantaggiato. Jolanda per esempio. A 39 anni e tre quarti non ha ancora trovato uno straccio di gladiatore con cui dividere il futon. Così per non sprecare l’amore si è riempita la casa di bestie e parla con loro. Ma non come san Francesco. Più come Del Piero. Solo che lui parla con gli uccelli e lei con quelli non ci riesce. È l’unica specie con cui non ha dialogo. Ieri mi ha detto: «Sai che Sushi, il mio pesce rosso, quando mi avvicino mi riconosce e mi fa le feste?». E come fai a capirlo? «Be’, agita molto le branchie.» Jolanda? Cortesemente.

Se potessi farti furba te ne sarei grata. Sushi è un pesce. E i pesci respirano con le branchie. Solo che lui fa più fatica. È obeso, pesa come una carpa perché lo nutrì solo a briciole di pandoro. Nel ripiano sopra il caminetto troneggia una gabbia con due minuscoli criceti: Mimì e Comò. Comò è grassoccio, un roditore decisamente fuori forma. Due bestioline innamoratissime che fanno sesso da mane a sera. Jolanda ha sperato per mesi di diventare nonna. Si è anche informata col veterinario se esistesse una microepidurale per rendere ilparto di Mimì meno doloroso. Da poco ha scoperto che non fanno cuccioli perché son due maschi. E lei, che vota radicale ed è stata sempre solidale con le minoranze, ha sparso la voce e ha creato la prima comunità di criceti gay.

 

Luciana Lettizzetto - Le loro cose


Aiuto. Sento che sto invecchiando. Non mi reggono più le giunture. Cigolano. Anche i gomiti non son più quelli di una volta. Gli anziani
dicono: cambia il tempo, c’ho i dolori. Ecco. Anch’io: cambia il tempo e c’ho i dolori. Anzi. Cambia il mondo e c’ho i dolori. In generale. Dolori vari. Misti. Gli anziani non perdono tempo a specificare. È così prezioso ormai il tempo, per loro, che non vale proprio la pena sprecarlo in dettagli. Anche le donne quando c’hanno il ciclo dicono: c’ho le mie cose. Però quella è un’espressione che detesto profondamente. Sono passati secoli eppure in questo nuovo mondo noi femminielle continuiamo a dire: c’ho le mie cose. Ma cose cosa? Quali cose? Dillo. Qual è il problema? Forse è perché quella parola là non suona tanto bene, con ‘sto «stru» centrale che sdrucciola. C’ho le mie cose, magari detto anche sottovoce, invece dà l’idea di una roba un po’ carbonara, fatta in gran segreto. Che fai stasera? Mah, sto a casa... c’ho le mie cose... Ah, capisco, salutamele. Ma poi le MIE cose. Col possessivo. Proprietà privata. Ma tientele pure strette. E chi te le tocca. E poi certo che c’hai le tue. Puoi mica avere le sue. Non puoi mica dire: Eh, oggi non sto tanto bene, c’ho le sue cose. Che orrore. Che imbarazzo.

 

Il genere dei nomi


CITTÀ
Città come Napoli, Milano, Messina, Torino, Bergamo, Catania, Urbino, Arezzo, Taranto sono maschili o femminili? Nel passato i nomi di città che avevano la desinenza in -o erano considerati maschili; oggi, invece, tutti i nomi di città vengono considerati femminili. Quindi si dice: la bella Torino, la mia Milano, la Palermo antica, sottintendendo sempre il nome città. É vero che uno scrittore famoso, Paolo Volponi, ha considerato maschile la sua città, e ha scritto in un romanzo: «Urbino [...] stretto e marrone, a punta e scontroso», ma agli scrittori, si sa, tutto è consentito.

FRUTTI
I nomi dei frutti sono quasi sempre femminili: la banana, la pesca, la noce, la mela, l’arancia; al frutto femminile corrisponde un nome d’albero maschile: il banano, il pesco, il noce, il melo, l’arancio.
Nei casi seguenti sia il nome del frutto sia il nome dell’albero sono maschili: il cedro, il fico, il lampone, il limone, il bergamotto, il chinotto, il mandarancio, il mandarino, il pompelmo.
I nomi dei frutti esotici sono quasi sempre maschili: l’ananas, l’avocado, il cachi, il kiwi, il mango, il litchi, il maracuja.
Un’ultima osservazione. Il plurale di frutto è frutti o frutta? I frutti indicano i prodotti delle piante: «i frutti dell’olivo»; oppure, in senso figurato, il risultato o il vantaggio che si ricava da qualcosa: «i frutti di una buona educazione». La (o le) frutta (con valore collettivo) indica i frutti che si comprano e si mettono a tavola: «un bel cesto di frutta»; «mettere la frutta in tavola»; «frutta fresca e frutta secca». Questa varietà di forme si spiega, ancora una volta, con la storia della parola. Dal latino fructus, maschile, in italiano si è avuto frutto, anch’esso maschile, che al plurale ha dato regolarmente i frutti. Nel latino tardo, accanto a fructus si è sviluppata un’altra forma usata solo al plurale, fructa, da cui si è avuto, in italiano, frutta, usato sia al singolare (la frutta) sia al plurale (le frutta).

QUANDO IL NOME E’ DONNA
«Le parole sono femmine, i fatti sono maschi», diceva un antico proverbio. Ai proverbi, si sa, tutto è consentito. A chi voglia usare una lingua italiana rispettosa non solo nei confronti delle regole, ma anche nei confronti delle donne, non tutto è consentito. Cominciamo dalla questione più spinosa e fonte, ancora oggi, di polemiche: la questione dei nomi di professioni e cariche al femminile. I nomi che indicano professioni o cariche pubbliche fino a una certa epoca non prevedevano, per ovvi motivi, una forma femminile. Per vedere che cosa è cambiato, apriamo il «Corriere della Sera» del 23 settembre 2010 e leggiamo che cosa ha scritto Beppe Severgnini: «L’avrete saputo: a Milano ci sono 20 mila avvocati, la metà di tutta la Francia. In Italia sono 230 mila, e aumentano ogni anno di 15 mila. Magari avete visto anche la lettera al Corriere di una giovane avvocata (anonima e pentita): a 27 anni prende 500 euro al mese, e ammette di essere fortunata. Almeno la pagano, e non la piazzano a fare fotocopie & caffè, come tanti colleghi coetanei». Avete letto bene: avvocata. Se lo scrive Severgnini, potete fidarvi. Ma se qualcosa non vi convince, e vi sembra che la parola «non suoni bene», o addirittura «sia brutta», aggiungeremo che, da un punto di vista grammaticale, la forma avvocata è del tutto legittima. La parola era usata fin dal Medioevo nel latino della Chiesa: la Madonna era definita advocata nostra nella preghiera Salve Regina, e da qui è entrata nell’uso come attributo non solo di Maria, ma di molte sante. Non siete ancora convinti? Aprite un buon vocabolario della lingua italiana, e cercate la parola avvocato: scoprirete che, se si riferisce a una donna, la forma avvocata è del tutto corretta.

 

Pasqua, 100mila a San Pietro


ROMA - E’ iniziata la messa di Pasqua celebrata dal Papa in piazza San Pietro, dove si sono radunati circa 100 mila fedeli. I pellegrini sono arrivati già dalle prime ore del mattino per partecipare alla celebrazione e per ricevere, alla fine, la benedizione papale “Urbi et Orbi”, cioé “alla città e al mondo”. Come è tradizione dal 1985, la piazza più nota della cristianità è adornata dagli addobbi dei fioristi olandesi: oltre 42 mila fiori e piante tra lilium, rose, aster e rami di ciliegio giapponese.

Il Papa andrà in Libano dal 14 al 16 settembre. Lo rende noto un comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana che ufficializza, nel giorno di Pasqua, le date. Durante il viaggio apostolico, il Papa “firmerà l’Esortazione apostolica diretta alla Chiesa del Medio Oriente, incontrerà le più alte autorità del Paese, civili e religiose, e presiederà un riunione dedicata alla giovani del Libano”. Benedetto XVI celebrerà una messa a Beirut.

Appello del Papa per “le comunità cristiane” in Africa nel messaggio Urbi et Orbi. Benedetto XVI ha citato Corno d’Africa, Sudan e poi il Mali, perché trovi “pace e stabilità”. E la Nigeria, perché ricostruisca pace e libertà religiosa. Oggi nel Paese una bomba é esplosa vicino a una chiesa facendo molte vittime.

In Medio Oriente “tutte le componenti etniche, culturali e religiose collaborino per il bene comune e il rispetto dei diritti umani”. E in Siria “cessi lo spargimento di sangue e si intraprenda la via del dialogo”. Così il Papa nel messaggio Urti et Orbi, con l”invito ad accogliere “i numerosi profughi”. “Cristo Risorto - sono state le parole di Benedetto XVI - doni speranza al Medio Oriente, affinché tutte le componenti etniche, culturali e religiose di quella Regione collaborino per il bene comune ed il rispetto dei diritti umani. In Siria, in particolare, cessi lo spargimento di sangue e si intraprenda senza indugio la via del rispetto, del dialogo e della riconciliazione, come è auspicato pure dalla comunità internazionale. I numerosi profughi, provenienti da quel Paese e bisognosi di assistenza umanitaria, trovino l’accoglienza e la solidarietà che possano alleviare le loro penose sofferenze”. Benedetto XVI ha ricordato anche il “popolo iracheno”, incoraggiandolo a “non risparmiare alcuno sforzo per avanzare nel cammino della stabilità e dello sviluppo”.

 

Due nuovi caimani all’acquario di Cattolica


Dall’acquario di casa al portabagagli dell’auto, all’acquario di Cattolica.

E’ il percorso di due cucciole di caimano arrivate da Monaco e subito ribattezzate dallo staff Frieda e Karin. Sono due femmine di circa 2 anni, la cui esistenza - si legge in una nota - è segnata da travagliati spostamenti, che le ha viste passare dall’acquario di casa, al vivere per settimane nel portabagagli dell’utilitaria del loro proprietario, suo malgrado obbligato a separarsene a causa della perdita del lavoro e anche dell’ abitazione. Ospitate per alcuni mesi presso il Centro di Recupero Rettili di Monaco - una struttura che accoglie animali selvatici abbandonati e in difficoltà - da poche settimane sono giunte a Cattolica affidate temporaneamente all’Acquario.

Misurano circa 50 cm. Il loro peso raggiunge i 10 kg, la loro livrea e differente, una di loro Karin è più chiara mentre Frieda è un po’ più scura e maculata. Sono molto curiose e attive, da subito hanno iniziato a perlustrare tutta l’area fluviale della vasca, a differenza dell’ adulto - Blu, una femmina adulta di oltre 40 anni proveniente dall’Acquario di Genova - che resta immobile per ore, loro due sono in continuo movimento. Abitano nel nuovo percorso giallo dedicato ai corsi d’acqua, un’ area amazzonica molto importante e ben strutturata adatta a ospitare più esemplari, inaugurata lo scorso anno. Un ambiente fluviale di oltre 50.000 litri di acqua dolce, ricco di vegetazione e diverse specie tipiche del Rio delle Amazzoni come grandi pirhana erbivori, squali d’acqua dolce e miriadi di pesci accetta e di pesci neon.

 

Federico Moccia - Scusa ma ti chiamo amore


Notte. Notte incantata. Notte dolorosa. Notte folle, magica e pazza. E poi ancora notte. Notte che sembra non passare mai. Notte che invece a volte passa troppo in fretta. Queste sono le mie amiche, cavoli... Forti. Sono forti. Forti come Onde. Che non si fermano. Il problema sarà quando una di noi s’innamorerà sul serio di un uomo. “Ehi, aspettate ci sono anch’io!” Niki le guarda, una dopo l’altra. Sono a via dei Giuochi Istmici. Hanno la miniauto con gli sportelli aperti e, con la musica a palla, improvvisano una sfilata di moda. “E dai, vieni allora!” Olly cammina come una pazza su e giù per la strada. Volume al massimo e occhiali a fascia. Sembra Paris Hilton. Un cane abbaia a distanza. Arriva Erica, grande organizzatrice. Prende quattro bottiglie di Corona. Appoggia i tappi sul bordo di una ringhiera e, dando dei cazzotti, li fa saltare via uno dopo l’altro.

Tira fuori un limone dallo zainetto e lo taglia.

“Ehi, Erica, ma quel coltello, se ti beccano, è meno di quattro dita?”

Niki ride e l’aiuta. Prende e infila un pezzetto di limone all’interno di ogni Corona e, pum!, brindano sbattendole forte e le alzano alle stelle. Poi si sorridono quasi chiudendo gli occhi, sognando. Niki finisce di bere per prima. Un fiato lungo e si riprende. Forti le mie amiche, e si asciuga la bocca. È bello poter contare su di loro. Lecca con la lingua quell’ultima goccia di Corona.

“Ragazze, siete bellissime... Sapete che c’è? Mi manca l’amore.”

“Ti manca una scopata, vorrai dire.”

“Quanto sei bora” dice Diletta, “ha detto che le manca l’amore.”

“Sì, l’amore” riprende Niki, “quello splendido mistero a te sconosciuto...”

Olly alza le spalle.

Sì, pensa Niki. Mi manca l’amore. Ma ho diciassette anni, diciotto a maggio. C’è ancora tempo per me... “Aspettate, aspettate, ora sfilo io, eh...”

E procede spedita su quello strano marciapiede-passerella Niki, tra le sue amiche che fischiano e ridono e si divertono per quella strana, splendida, pantera bianca che, almeno per adesso, non ha ancora picchiato nessuno.
”Amore, amore ci sei? Scusami se non ti ho avvisato, ma non ce la facevo a tornare domani.”
Alessandro entra nella sua casa e si guarda in giro. È tornato apposta con la voglia di lei ma anche con la voglia di scoprirla con qualcuno. È troppo tempo che non fanno l’amore. E quando non c’è sesso a volte vuoi dire solo che c’è un altro. Alessandro gira per casa ma non trova nessuno, anzi non trova proprio più niente. Oddio, ma che, sono venuti i ladri? Poi un biglietto sul tavolo.
La sua scrittura.

 

 

Giovanni BERTACCHI - A Fior di Silenzio


Patria che raccogliesti il tuo destino sui lembi, là, del continente nero, nuove strade cercando al tuo cammino, se qui m’indugio dietro il mio pensiero, affinando la vita in tenui carmi, ch’io non ti sembri immemore o straniero. Odo la voce tua, sento passarmi tepidi in fronte i venti sconosciuti, scorgo i tuoi figli vigili nell’armi. Oh, che l’anima mia li risaluti! Artigiani pur ieri e falciatori e pastori su l’alpe io li ho veduti. Patria, laggiù, dove tu pugni e muori e rinasci vincendo, esser vorrei il camerata che serena i cuori; ed inerme tra i ferri onde tu sei cinta e protetta, una dolcezza buona pei fratelli cavar dai sogni miei. Come una blanda melodia che suona a tutti eguale, ma ciascun v’intende il dolore o l’amor che l’appassiona, per ogni madre che lontana attende e pel ricordo delle meste amanti, correrebbe ai bivacchi e fra le tende questo lento rigagnolo di canti.

 

Alessandro MANZONI - I Promessi sposi

 

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talchè non è chi, al primo vederlo, purchè sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque.

 

Stefano BENNI - Di Tutte le ricchezze

 

Ma veniamo al fatto nuovo di questo pomeriggio. Di fronte alla mia casa, a un tiro di schioppo sotto due enormi secolari olmi, c’è un casolare disabitato da un anno, da quando il proprietario, un barbuto e intrattabile pittore tedesco, lo lasciò per andare a morire in qualche remota India. È quasi identico al mio, solo che è dipinto di un azzurro slavato, e ovviamente l’erba che lo circonda è alta. Stamattina è arrivato un grosso  fuoristrada nero, uno di quei mostri con cui gli Esploratori do Ingorghi intasano inutilmente il traffico. Le ruote poderose hanno disperso nuvole di foglie gialle, il rumore ha fatto volare via merli e cornacchie.

Sono scese tre persone. Una è proprietario della casa, un mercante come quello della leggenda, un omaccio dal volto suino e dai modi barbari. Concitatamente  gesticolava, certo narrando le delizie della sua proprietà, a una coppia. Un Lui vestito di un giaccone di pelle, apparentemente sui quarant’anni, capelli lunghi e un ciuffo nero sulla fronte. Una Lei con lunghissima chioma bionda, snella, da lontano bellissima.

 Da lontano bellissima. Cosa si annida in queste tre parole? Avrò dei vicini? Saranno solitari come me, ci saluteremo appena o incendieranno la mia quiete? Ombra è già andato a conoscerli dimenando la grossa coda, con cui gaiamente ribalta gli oggetti di casa. Lei lo ha subito accarezzato. 

https://images-blogger-opensocial.googleusercontent.com/gadgets/proxy?url=http%3A%2F%2Fir-na.amazon-adsystem.com%2Fe%2Fir%3Ft%3Denglfor2days-20%26l%3Das2%26o%3D1%26a%3DB00JIVSGGC&container=blogger&gadget=a&rewriteMime=image%2F*”Sulle sponde della Garonna, nella provincia di Guienna, esisteva nell’anno 1584 il castello di Sant’Aubert: dalle sue finestre scoprivansi i ricchi e fertili paesi della Guienna, che si estendevano lungo il fiume, coronati da boschi, vigne ed oliveti. A mezzodì, la prospettiva era circoscritta dalla massa imponente dei Pirenei, le cui cime, or celate nelle nubi, ora lasciando scorgere bizzarre forme, si mostravano talvolta, nude e selvagge, in mezzo ai vapori turchinicci dell’orizzonte, e talora scoprivano le loro pendici, lungo le quali dondolavano grandi abeti neri, agitati dai venti. Spaventosi precipizi contrastavano colla ridente verzura de’ prati e delle selve circostanti, e lo sguardo affaticato dall’aspetto di quelle voragini, si riposava alla vista degli armenti e delle capanne dei pastori. Le pianure della Linguadoca si estendevano a tiro di occhio a tramontana ed a levante, e l’orizzonte confondevasi a ponente colle acque del golfo di Guascogna.

Sant’Aubert, accompagnato dalla sposa e dalla figlia, andava spesso a passeggiare sulle sponde della Garonna; egli si compiaceva di ascoltare il mormorio armonioso delle sue acque. Aveva altre volte conosciuto un altro genere di vivere ben diverso da questa vita semplice e campestre; aveva a lungo vissuto nel vortice del gran mondo, ed il quadro lusinghiero della specie umana, formatosi dal suo giovine cuore, aveva subìto le tristi alterazioni dell’esperienza. Nondimeno, la perdita delle sue illusioni non aveva nè scosso i suoi principii, nè raffreddata la sua benevolenza: aveva abbandonata la società piuttosto con pietà che con collera, e si era limitato per sempre al dolce godimento della natura, ai piaceri innocenti dello studio, ed in fine all’esercizio delle domestiche virtù.

Discendeva da un cadetto d’illustre famiglia; ed i suoi genitori avrebbero desiderato che, per riparare alle ingiurie della fortuna, egli avesse ricorso a qualche ricco partito, o tentato d’innalzarsi colle mene dell’intrigo. Per questo ultimo progetto, Sant’Aubert aveva troppo onore e troppa delicatezza; e, quanto al primo, non aveva bastante ambizione per sacrificare all’acquisto delle ricchezze ciò ch’esso chiamava felicità. Dopo la morte del padre sposò una fanciulla amabile, eguale a lui per nascita, non meno che pei beni di fortuna. Il lusso e la generosità di suo padre avevano talmente oberato il patrimonio ricevuto in retaggio, che fu costretto di alienarne porzione. Qualche anno dopo il suo matrimonio, lo vendè a Quesnel, fratello di sua moglie, e si ritirò in una piccola terra di Guascogna, dove la felicità coniugale ed i doveri paterni dividevano il suo tempo colle delizie dello studio e della meditazione...”

 

Alessandro Baricco - Novecento  

 

Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa... e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Voglio dire... Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi... Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo... la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte...magari era lì che si stava aggiustando i pantaloni... alzava la testa un attimo, buttava un occhio verso il mare... e la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava ( piano e lentamente): l’America. Poi rimaneva lì, immobile come se avesse dovuto entrare in una fotografia, con la faccia di uno che l’aveva fatta lui, l’America. La sera, dopo il lavoro, e le domeniche, si era fatto aiutare dal cognato, muratore, brava persona... prima aveva in mente qualcosa in compensato, poi... gli ha preso un po’ la mano, ha fatto l’America...

Quello che per primo vede l’America. Su ogni nave ce n’è uno. E non bisogna pensare che siano cose che succedono per caso, no... e nemmeno per una questione di diottrie, è il destino, quello. Quella è gente che da sempre c’aveva già quell’istante stampato nella vita. E quando erano bambini, tu potevi guardarli negli occhi, e se guardavi bene, già la vedevi, l’America, già lì pronta a scattare, a scivolare giù oer nervi e sangue e che ne so io, fino al cervello e da lì alla lingua, fin dentro quel grido (gridando), AMERICA, c’era già, in quegli occhi, di bambino, tutta, l’America.

Lì, ad aspettare.

Questo me l’ha insegnato Danny Boodmann T.D.Lemon Novecento, il più grande pianista che abbia mai suanato sull’Oceano. Negli occhi della gente si vede quello che vedranno, non quello che hanno visto. Così, diceva: quello he vedranno.

 

Elvira SANTILLI - Oltre la valle

 

Capracotta è un paese situato a 1421 m sul livello del mare ed è il più alto comune dell’Italia appenninica.
Poiché sono sicura che anche l’eventuale lettore di questo libro avrà, come tanti altri, la curiosità di sapere l’origine del nome, dirò che la leggenda popolare narra che alcuni zingari, avendo deciso di fondare una cittadina, per compiere un rito in uso presso di loro, bruciarono una capra, che riuscì a fuggire dal rogo e si rifugiò sui monti, ove stremata di forze, esalò l’ultimo respiro.

Gli zingari costruirono dove essa si era fermata la chiesa parrocchiale intorno a cui sorse il paese. Dicono anche che il nome derivi latino “castra cocta”, ossia accampamento protetto da un “agger coctus”, il quale era un muro di cinta fatto di mattoni. Non è da escludere, infatti, che un distaccamento romano stesse di stanza in quelle alture per utilizzare le possibilità strategiche della località che domina la vallata del Sangro.
Non mancano tesi che fanno risalire il significato dello stemma comunale, raffigurante una capra che fugge da una pira, alla prova del fuoco in uso presso i Longobardi, che avrebbero fondato la cittadina.
C’è anche chi pensa che in quel posto vi fosse una trattoria ove si servisse della carne di capra, ma sembra più convincente lo studio fatto da Ugo Mosca, quel mio parente che si è occupato dei Mosca, il quale ha depositato nella Biblioteca provinciale di Campobasso due dattiloscritti sui toponimi molisani e sull’origine del nome di Roma.

Nello scalo di S. Pietro Avellana c’è sempre stata una scuola, ora statale, ora sussidiata, a seconda del numero degli alunni che la piccola borgata poteva offrire.

Si trattava di una pluriclasse comprendente i prima quattro anni di scuola elementare, che talvolta si completava con una quinta.

I maestri venivano da lontano e non era raro il caso che qualcuno rimanesse invischiato nella pania aorosa con cui, a detta di alcune signorine, mia madre affatturava i giovanotti per maritare le numerose figlie.
Fu così che Angiolino si innamorò della mia prima sorella. Questa, quando giunse a S. Pietro il nuovo insegnante, era a Campobasso ove frequentava un corso di taglio. Mia madre approfittò del giovane, che si recava a visitare i suoi nei pressi del capoluogo molisano, per mandare una lettera alla figlia.
Il maestro salì le scale della casa indicata dall’indirizzo e, con aria contegnosa, si tolse il cappello prima di bussare alla porta. Gli andò ad aprire una signorina snella, bruna, dal portamento svelto e nervoso.

 

 

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